Indiana Jones e il Quadrante del Destino: la recensione del film

19 maggio 2023
3.5 di 5
92

Torna Indy, giustamente vecchio e stanco, trascinato nella solita sarabanda di viaggi, avventure e scontri (coi nazisti) dalle giovani generazioni. Ci sono omaggi e strizzate d'occhio, c'è il fan service, non tutto fila, ma alla fine il film ha senso: l'unico possibile. La recensione di Indiana Jones e il Quadrante del Destino di Federico Gironi.

Indiana Jones e il Quadrante del Destino: la recensione del film

Ok, va bene, c’è il prologo. Quel prologo con Harrison Ford ringiovanito digitalmente, in cui Indiana Jones è ancora alle prese con reperti e nazisti: siamo sulle Alpi Svizzere, l’anno è il 1944, Hitler sta perdendo la guerra e i suoi fedelissimi gli vogliono regalare - magra consolazione - la lancia di Longino. Che poi è il più tipico del McGuffin, perché il prologo serve solo a introdurre il vero reperto (nonché vero McGuffin), il Quadrante del Destino progettato e realizzato da Archimede (il nome corretto è "macchina di Antikytera"), e il villain di turno, che è un nazista interpretato da Mads Mikkelsen.
Dopo il prologo, abbastanza divertente e fin troppo frenetico, ecco che “Magical Mystery Tour” sparata a tutto volume da un vicino sveglia di soprassalto l’Indy anziano: siamo a New York, e siamo nel 1969, all’indomani dello sbarco sulla Luna (e dopo i Beatles si sente il David Bowie di “Space Oddity”, uscita proprio quell’anno.
Ecco allora che il film di James Mangold inizia a svelare piano piano le sue carte, che non solo quelle dell’ovvio omaggio ai capitoli precedenti, e quelle delle ripetute strizzate d’occhio agli appassionati della serie, ovvero quella cosa che i giovani d’oggi chiamano “fan service”.

Tra mille ripetuti (e un po’ ripetitivi) inseguimenti, tra le galoppate a cavallo nella metropolitana di New York e le corse in tuk tuk nei vicoli di Tangeri, tra le immersioni nel Mar Egeo infestato dalle murene e esplorazioni dell’Orecchio di Dioniso (nei pressi di Siracusa, per chi non avesse studiato perché nonna era malata), Indiana Jones e il Quadrante del Destino in fondo ci dice già in quella prima scena del 1969 tutto quello che c’è da dire: ovvero che il suo protagonista è un eroe oramai stanco e anziano, che vorrebbe solo andare in pensione e riconquistare un amore perduto, e che invece viene costretto a svegliarsi dal suo torpore un po’ depresso e a tornare in azione dal casino che fanno le nuove generazioni.
Dove a incarnare le nuove generazioni (anche di spettatori) c’è poi la Helena di Phoebe Waller-Brige: una che all’inizio di pare poco adatta a fare l’(anti)eroina d’azione, ma poi ti conquista con la sua inimitabile ironia.
Una volta svegliato il professor Jones, comincia la ben nota sarabanda di viaggi, inseguimenti, scontri. E anche qui, ecco svelate le carte del film: perché gli scontri non sono mica solo coi cattivi, coi nazisti, che anche nel 1969 vogliono l’altra metà del Quadrante per tornare indietro nel tempo e ribaltare l’esito della II Guerra Mondiale, ma anche quelli tra Indy e Helena, nuova generazione ossessionata dai soldi (e quindi dagli incassi), e tendenzialmente un po’ egoista, anche se poi impara il valore dell’altruismo, nonché quello dell’esperienza, che è un valore mica da poco.

Possiamo dire che il film di Mangold, più o meno fino a quando i nostri eroi non arrivano a Siracusa direttamente dal mare della Grecia, funzioni abbastanza bene; da Siracusa in avanti prende però una china un po’ troppo baracconesca che sembra lasciare intuire il peggio. Un peggio che sembra inoltre concretizzarsi - anche per quanto riguarda l’eccesso di CGI, che già in precedenza aveva fatto capolino qui e lì - quando succede una cosa che non scriverò mai nemmeno sotto tortura, e che sembra quasi il più classico dei salti dello squalo.
E invece, proprio quando sei lì per metterti le mani nei capelli, ecco che Indiana Jones e il Quadrante del destino compie la sua magia.
Non entrerò troppo nel dettaglio, ma di nuovo, così come avvenuto all’inizio, il film di Mangold riacquista senso, l'unico senso possibile, e ci racconta di un Indiana Jones che sa benissimo di appartenere al passato, e che continua a essere strattonato nel presente dalla nuova generazione di Helena, questa volta non per denaro, ma per affezione sincera. Un’affezione che è la sua, certo, ma anche - e soprattutto la nostra.
Tanto che, visto che oramai Mangold ha spalancato porte e finestre per far entrare i suoi venti più sentimentali, ci si commuove apertamente di fronte a un incontro finale che chiude un cerchio, un percorso, un’era e - speriamo - anche una saga, restituendo Indiana Jones a chi di dovere, al suo tempo, al suo futuro lontano dallo schermo ma all’interno di una casa e di una storia d’amore.
"Dove non ti fa male?".
"Qui".

E giù lacrime.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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