Il sol dell'avvenire: la recensione del nuovo film di Nanni Moretti
Moretti è spietato e pietoso allo stesso tempo, nei confronti del mondo, del cinema, degli spettatori. Di sé stesso. Fa i conti con chi è, con quello che ha attorno, e con quello che è diventato e stato. Per andare incontro, col sorriso, a un radioso futuro che si fa anche coi se. La recensione di Il sol dell'avvenire di Federico Gironi.
“E non hai pietà tu di me”, diceva Nanni Moretti in Bianca.
Nell’accumulo programmatico, tematico, ideologico e perfino sarcastico di tutto quello che è diventato, negli anni, il morettismo quintessenziale della cultura popolare italiana che c’è in questo film, il riferimento esplicito a quella battuta non c’è. E forse non è un caso.
Da un lato perché invece in Il sol dell’avvenire Moretti, se non la pietà (che pure) sceglie perlomeno l’indulgenza, e il perdono, anche e soprattutto inteso come perdono di sé stessi; dall’altra perché, paradossalmente, Moretti è spietato come sempre verso il mondo che lo e ci circonda, e ancora di più verso sé stesso.
Come e più che nel trailer, lo spettatore tipo del cinema di Moretti ritroverà nel Sol dell’avvenire la passione per i dolci, le nevrosi, gli sguardi spiritati, le idiosincrasie per le scarpe, le piscine, i richiami alla mamma.
Moretti, come dice lui stesso nel film, citando il capolavoro Palombella rossa, si ricorda. Si ricorda di sé, del suo cinema. Lo cita e lo ricostruisce, anche quando scambia la Vespa storica oramai ospite fissa del Museo del Cinema di Torino con un monopattino elettrico, o quando la musica non interrompe una partita di pallanuoto facendo cantare tutta una piscina, ma un set, con tutti che si mettono a girare attorno a una stanza, mentre si danza.
Lo spettatore tipo del cinema di Moretti, così, va in sollucchero, in estasi glicemica. Per poi rendersi conto anche, speriamo, che in quell’ostentazione lì c’è una provocazione esplicita (“Rivolevate Michele Apicella o il diarismo? Eccoveli qui”, sembra dire Nanni) ma anche la voglia di chiudere un cerchio per aprire nuovi orizzonti.
È sempre lui, Nanni, nei panni di Giovanni, a dirlo esplicitamente. Quando sta per iniziare le riprese del suo film ambientato nel 1956 - quello nel quale Silvio (Orlando) è un suo chiaro alter ego, segretario della sezione del PCI del Quarticciolo che, dopo aver invitato il circo Budavari, si trova a non saper come gestire le sue reazioni, e quelle del partito, dopo i carri armati sovietici entrati a Budapest - chiede alla moglie e alla figlia di accompagnarlo nel solito rituale: vedere Lola di Jacque Demy sul divano, sotto al plaid di Sogni d’oro, mangiando il gelato.
Solo che moglie e figlia sono impegnate, i telefoni squillano, non se lo filano più: ripetere i rituali è oramai impossibile.
Le cose sono cambiate, insomma. Il mondo è cambiato. Tutto questo, non per il meglio, dice Moretti, e non ha affatto torto.
Moretti, e noi con lui, è ancora, e sempre di più, d’accordo con una minoranza.
Il cinema pure, anzi soprattutto, è cambiato. Ed ecco allora Moretti che blocca per una notte intera il set di un giovane collega prodotto dalla moglie (quello che aveva esordito con un film osannato dai critici e intitolato Orchi), proprio quando sta per girate la scena finale, per scagliarsi ideologicamente ed eticamente contro una violenza becera, elementare e piatta, tirando in ballo Renzo Piano, Corrado Augias e Martin Scorsese. Ecco che Moretti va da Netflix, e rimane pietrificato di fronte agli slogan sui 190 paesi (da lui stesso inventati, in radio), e alla richiesta di inserire momenti “what the fuck” nel suo film.
E però. Se la nevrotica intransigenza morettiana applicata al cinema ancora può avere un senso, l’eccesso di intransigenza, giorno dopo giorno, può risultare fatale.
Il mondo è cambiato in peggio, sì, ma se ciò è accaduto è accaduto anche nonostante. Nonostante le nostre piccole e grandi resistenze, le nostre piccole e grandi intransigenze. Nonostante il cinema di Moretti.
E c’è, attorno a noi, chi dalla nostra caparbia fedeltà a dei principi, magari pure sacrosanti, è rimasto logorato, spossato, annichilito.
Giovanni non lo sa, che la moglie Paola, che è anche la sua produttrice, lo sta lasciando. Paola glielo dice solo dopo l’incidente sul set del giovane regista, esausta.
Eppure Giovanni lo sapeva già, perché mentre gira il suo film sul ‘56 e sul segretario della sezione del PCI del Quarticciolo, e mentre scrive - in una scena uscita para para, ancora, da Palombella rossa - un film tratto da “Il nuotatore” di John Cheever (“questo film lo dovevo fare quando ero giovane e in forma”, dirà Nanni, nuotando), Giovanni sogna e immagina di dirigere un film sulla storia di una coppia, “con tante canzoni italiane”.
Noi le vediamo, le scene di quel film.
Vediamo due ragazzi giovani che si innamorano, un primo appuntamento a vedere (il finale di) La dolce vita, una lite in auto nel quartiere Mazzini, un picnic al parco. E li vediamo con Giovanni che, regista impossibile della sua vita e del suo passato, detta azioni e battute a questi due ragazzi inattrezzati e pieni di vita, dolore e sentimento, come a cercare di aggiustare qualcosa. Il passato. Sé stesso.
Sono i momenti forse più commoventi, questi, di un film che più va avanti più fa piangere, oltre che ridere. Di un film nel quale Moretti fa i conti non solo col suo cinema, ma con sé stesso, con la sua età, con la sua storia artistica e personale, in maniera così impietosa, e così serena, da non riuscire a trattenere, noi che guardiamo, le lacrime.
Nella scena finale del film sul ‘56 (non è spoiler perché è anche nel trailer), il personaggio di Silvio Orlando, incapace di accettare il dissidio tra i suoi principi e la sua ideologia, ovvero la fedeltà alla linea del partito, e quello che sa essere giusto fare ma che spaventa (sostenere l’Ungheria), quel personaggio era destinato a impiccarsi.
A Giovanni - lo stesso Giovanni che confessa candidamente alla figlia, e al pubblico, la sua dipendenza da sonniferi e antidepressivi - Paola dice che quel finale, a lei, fa paura. Perché sa che Silvio è l’alter ego di suo marito. E abbiamo paura anche noi quando, sul set, Giovanni si mette il cappio al collo, e lo stringe (da solo se lo mette e se lo stringe, come facciamo noi tutti i giorni, a volte), e ha uno sguardo che fa male solo a ricordarlo.
E però Giovanni dice basta (con certa intrasigenza, con certa miope fedeltà a sé stessi). Per oggi abbiamo finito. Giriamo domani.
E domani dirà che quel cappio, lui, non lo vuole più vedere. Che la storia si può fare con i se (come dice anche Tarantino). La storia con la S maiuscola si può fare con i se solo al cinema. La storia nostra anche nella realtà, ogni giorno, non è mai troppo tardi.
“E se cambiassi?”, si chiede Moretti. Se fosse già cambiato, e avesse imparato a perdonare, e a perdonarsi, e a essere un poco (poco eh) più morbido, meno ideologico.
Alla figlia che gli annuncia le nozze con il fidanzato assai anziano Giovanni lo dice a chiare lettere: “Se me lo avessi detto un mese fa, non avrei reagito così bene”.
Per andare incontro al Sol dell’avvenire, Moretti guarda indietro, riconosce i suoi meriti, le sue conquiste, il suo essere diventato parte della cultura di questo paese, ma anche i suoi limiti, i suoi difetti, magari i suoi errori. Commuove quando cerca di migliorare il sé stesso giovane, sapendo che è impossibile, ma ancora di più quando trova la forza di far fare uno scarto al sé stesso del presente, per andare avanti, liberandosi da vecchi schemi mentali.
Per marciare allegro e trionfale lungo via dei Fori Imperiali (con le pantofole? No, in strada con le pantofole no) con tutte, ma proprio tutte, le persone che lo hanno reso quello che è oggi, splendido quasi settantenne pronto per la seconda e la terza fase della sua carriera. Per tenere insieme tutte le persone che hanno significato qualcosa, e a cui si vuol bene, in una bella confusione felliniana.
E noi, per noi, è bellissimo perdersi in questo incantesimo, per dirla con uno che a Nanni Moretti è molto caro.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival