Il Signor Diavolo: la recensione del ritorno all'horror di Pupi Avati
A 80 anni il regista torna al genere, chiudendo il cerchio e regalandoci molte belle sorprese.
Con una facile battuta, verrebbe da dire "diavolo di un Avati!". Dopo aver a lungo, almeno in apparenza, snobbato gli horror che tutti amiamo, in favore di altri suoi lavori più impegnati, a 80 anni il regista bolognese riesce a coniugare le sue due anime, quella autoriale e quella visionaria, in un film che è un ritorno alle origini e alle radici stesse del suo cinema, riportandoci in quella provincia italiana che tanti orrori veri e immaginari ha prodotto nei secoli. Pupi Avati torna a firmare un film per il grande schermo 5 anni dopo l'ultimo (non riuscitissimo) e per farlo attinge (cambiando intelligentemente il finale) ad un suo romanzo del genere “gotico padano”, adattato assieme al figlio e al fratello. Qua, a differenza della campagna ferrarese dove si svolge La casa dalle finestre che ridono, l'ambientazione rurale della storia è il Veneto dei primi anni Cinquanta, per la precisione del 1952, anno in cui il Presidente del Consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi, al suo settimo governo, chiama a raccolta il mondo cattolico contro il Pericolo Rosso.
Per questo, quando a Roma giunge voce che un ragazzino ha ucciso un suo coetaneo sostenendo che fosse il diavolo, a quanto si dice istigato da una suora e un sacrestano, un solerte funzionario invia uno dei suoi uomini a indagare: la paura è che la ricca madre della vittima, infuriata contro quelle che definisce superstizioni, nuoccia all'immagine della Chiesa propagandata dal partito di governo. Viene così inviato in missione segreta alla volta del paese il giovane e insicuro ispettore Furio Momenté, dalla mediocre carriera, che parte un po' come Jonathan Harker nella selvaggia Transilvania e strada facendo si incaponisce a suo discapito, come il sergente Howie nelle sue fatali indagini a Summerisle in The Wicker Man o, per citare l'ispirazione originale, come il restauratore di Lino Capolicchio nell'horror di Avati del 1976. Ancora una volta, il regista bolognese ci intrappola in una storia da incubo, che – pur essendo molto diversa dalle precedenti – rivela man mano dei particolari che ci convincono di trovarci nello stesso mondo arcaico che tanto ci ha già spaventato qualche decennio fa.
Non solo perché è obiettivamente emozionante ritrovarne fianco a fianco i protagonisti Gianni Cavina e Lino Capolicchio qualche decennio dopo, ma anche perché tornano le pensioncine dove si ricevono inquietanti messaggi, l'acqua che circonda ogni cosa, e soprattutto c'è di nuovo una chiesa, coi preti, i crocifissi, le monache, gli esorcisti e le storie che spaventano i bambini per farli star tranquilli (ad esempio chi scrive ricorda ancora di esser stata terrorizzata a quattro anni da una suora che diceva che in una chiesa lucchese, sotto una lapide sul pavimento si nascondeva il diavolo). Storie che ricordano anche le atmosfere di uno dei più bei film di Avati, Le strelle nel fosso, sia pure in quel caso declinate in tono favolistico. Se non sapessimo che il regista non appartiene alla corrente del citazionismo ci verrebbe il dubbio che nel rapporto tra Momenté e il padre ci sia un'eco di quello tra padre Karras e la madre nell'Esorcista, anche se si tratta probabilmente di una (felice) coincidenza tematica.
È un'Italia che sembrava scomparsa, quella del contrasto così netto tra passato e modernità, cultura contadina e scienza, religione e politica uniti contro il comunismo, ma che sembra tornare oggi, quando il “diavolo” usa i social e le fake news per produrre l'odio di cui si nutre e con cui continua a infettare il mondo. Ma senza spingerci troppo lontani in metafore che nascono più dallo sguardo del critico che da quello dell'autore, notiamo che Il signor diavolo, senza presunzione, offre agli autori di horror contemporaneo diverse lezioni. La prima è che in meno di 90 minuti si può (se si sa) raccontare una storia e farlo bene, in modo da fartici ripensare anche tempo dopo, senza archiviarla con troppa facilità. In un periodo in cui si celebrano horror provenienti dall'estero che ricostruiscono nei minimi, estenuanti dettagli, leggende popolari racchiuse in impressionanti impalcature architettoniche e scenografiche che contengono quasi esclusivamente l'ego di autori prematuramente promossi a maestri (e siamo sicuri che capite a chi ci riferiamo), ci è più che gradito questo ritorno alla semplicità con cui un tempo registi tanto diversi come Mario Bava, Riccardo Freda, Lucio Fulci e Dario Argento confezionavano le loro storie di paura, amate in tutto il mondo.
Poi ci sono le facce, i volti che nei film di Pupi Avati risultano sempre azzeccati e veri, inclusi quelli dei non attori o delle comparse mute o con una sola battuta. Avati è quello che gli americani chiamano “an actor's director", è difficile che con lui qualcuno risulti stonato e fuori fuoco. Tra gli attori ci fa piacere scoprire il talento di Gabriele Lo Giudice, che non conoscevamo e che ci ha ricordato un po' nel film il Joseph K. del Processo, e del piccolo Filippo Franchini nel ruolo di Carlo. In significative partecipazioni straordinarie ci sono poi i volti noti del cinema avatiano: Massimo Bonetti, Alessandro Haber, Cesare Cremonini e Andrea Roncato (un vero peccato che non lo si sia visto più spesso al cinema in questa veste di caratterista serio e misurato). Chiara Caselli (un altro gradito ritorno) è una perfetta dama nera di quelle che il nostro cinema di genere sapeva creare in passato. Suggestiva la fotografia desaturata di Cesare Bastelli, bello il commento sonoro un po' retrò di Amedeo Tommasi, ben utilizzati gli effetti speciali di Sergio Stivaletti, i costumi, il suono... in un film che dimostra che il cinema è davvero un lavoro collettivo, in cui l'orchestra suona all'unisono sotto la bacchetta di un bravo direttore. Infine, è davvero inquietante la creatura interpretata da Lorenzo Salvatori, delle cui azioni – a differenza di altri – non intendiamo raccontarvi niente. Perché un piccolo film come questo può riservare grandi sorprese e, se pure non vi spaventerà come La casa dalle finestre che ridono, può tornare con le sue immagini a infestarvi i pensieri quando meno ve lo aspettate.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità