Il ragazzo invisibile - la recensione del film di Gabriele Salvatores
Più che la risposta italiana ai cinecomic, il tentativo di restituire dignità al cinema per ragazzi.
È bene che gli spettatori siano preparati: Il ragazzo invisibile non è la risposta italiana alla grande fascinazione contemporanea per i cinecomic.
Non lo è perché sarebbe stata un’operazione un po’ folle e suicida, sbagliata da un punto di vista non tanto produttivo quanto culturale e geografico; non lo è perché la dimensione superoistica guarda (fortunatamente) assai di più ad una serie tv vagamente revisionista come Heroes che non alle grandi avventure classiche a fumetti firmate Marvel o DC Comics.
Fatto sta che in Italia, oggi - per una complessa combinazione di formazione, eclettismo, coraggio, età e peso contrattuale - forse solo Gabriele Salvatores poteva affrontare (e la Indigo produrre) un progetto di questo genere, che lo spunto di Heroes lo cala nella Trieste mitteleuropea, di confine e liminale dei Saba e degli Svevo, e lo infantilizza ad arte per risultare ideale per il target di riferimento: quello dei 12-13enni coetanei dei giovani protagonisti.
Più che appartenere al filone dei supereroi (sebbene loro malgrado, inesperti e spaventati dai loro poteri come vuole la tradizione del genere), quello di Salvatores è quindi un film che tenta non senza successo la meritoria operazione di rilancio di un genere negletto e spesso svilito come quello di un cinema per ragazzi che sappia divertire e avvincere tanto i più giovani quanto i loro genitori.
A cimentarsi nella stessa operazione, qualche mese fa, era stato il discontinuo Amori elementari, che con il film di Salvatores condivide diversi nodi tematici e narrativi: dal primo amore, appunto, all’avventura metaforica e formativa che accompagna il tentativo di una conquista, passando per protagonisti timidi e incerti eppure capacissimi, bulli più o meno minacciosi che ne intralciano il cammino, genitori che sono spettatori partecipi e inconsapevoli delle peripezie della loro prole, che a loro guarda con fiducia e diffidenza assieme.
Nodi ineludibili, se si parla di quelle età, e su questa base condivisa Il ragazzo invisibile innesta tutte le variabili supereroistiche del caso, utilizzando com’è (fin troppo) ovvio l’invisibilità come metafora di un sentimento e di una collocazione, senza dimenticare di ammiccare in maniera costante ma mai invadente ai grandi film d’avventura per ragazzi dei primi anni Ottanta targati Amblin: Goonies, Gremlins e tanti altri, con un passo dentro la tradizione europea de La guerra dei bottoni e un occhio a certe eleganze autoriali che vengono da Ferro 3 e Lasciami entrare.
Tanta carne al fuoco, quindi, forse troppa, che Salvatores gestisce però con la giusta leggerezza e un affetto sincero e partecipe per i suoi giovani protagonisti, nei quali riversa evidentemente parti di sé, e che lascia sempre avvolti in una malinconia romantica, limpida eppure ovattata come la fotografia di Italo Petriccione.
Sarà allora per il clima, per Trieste, per il look, ma a volte sembra che a Il ragazzo invisibile, che oscilla tra eleganti austerità austoungariche e mollezze romantiche slavo-italiane, manchi a volte un fuoco intimo, un fulcro, un motore energetico forte che non sia quello legato all’effetto speciale o all’invisibilità, dato che il sentimento è trattato sempre con due paia di guanti.
Salvatores appare sempre molto controllato, e se rasenta la tenerezza nostalgica nel raccontare delle prime ovvie imprese del suo ragazzo invisibile (che si vendica dei bulli, copia le soluzioni di un compito di matematica e s’intrufola nelle docce delle ragazze in una sequenza fin troppo flou), colpisce quando lascia che la forza e la crudezza della determinazione del protagonista esplode, letteralmente, regalando perfino un insospettabile dettaglio ai limiti del gore.
Alla vista fugacissima, quasi subliminale del sangue, risalta ancora di più quanto mollemente esangue è venuto prima: perché pur affettuoso e tenero, Salvatores è apparso qui più paterno e paternalista del solito, e quasi a disagio di fronte alle espressioni più focose, ma sempre infantili, dell’alba dell’adolescenza. Quel che manca, a Il ragazzo invisibile, è allora di concedersi a quell’energia dolce e rabbiosa assieme che, invece, aveva centrato appieno Asia Argento in Incompresa: capace, lei, di mettersi davvero ad altezza bambino non solo con la macchina da presa, ma anche con lo spirito, il cuore e la mente.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival