Viceroy's House: recensione dell'affresco storico indiano con Hugh Bonneville e Gillian Anderson
La storia degli ultimi mesi dei britannici in India presentata alla Berlinale 2017.
Se lo studio della storia non è così popolare dalle nostre parti, lo è ancora di meno quella lontana dal nostro continente. L’eurocentrismo ha afflitto (e affligge ancora) anche le nostre università. Motivo per il quale poco si sa delle dinamiche che portarono in Asia dalla fine della Seconda guerra mondiale alla ridistribuzione dei confini e dei rapporti geopolitici, in seguito alla decolonizzazione. Figlia dell’Impero britannico, nata in Kenya in una famiglia della diaspora indiana Sikh, poi emigrata in Gran Bretagna, Gurinder Chadha ha sempre raccontato la sua duplice anima e cultura. In Viceroy’s House ha fatto un passo ulteriore avanti, portando sullo schermo la storia della sua famiglia prima della sua nascita: rifugiati, destino in comune con altri 14 milioni di indiani, in seguito al pressoché contemporano abbandono dei colonizzatori britannici e alla partizione del subcontinente fra indù (In India) e musulmani (nel neonato stato del Pakistan). Una tragedia nel momento della libertà attesa da secoli che provocò la morte di un milione di persone e segnò la storia indipendente di quella zona del mondo con un peccato originale di sangue.
La regista di Sognando Beckham ha utilizzato la storia di un amore impossibile fra una giovane indù e un ragazzo musulmano per ricreare un microcosmo in cui sintetizzare la tragedia. Una delle tante, troppe semplificazioni, di un film concepito per nobili ragioni, con il valore di pedagogico di porre l’attenzione su fatti storici di decisiva importanza, ma anche vittima di retorica di grana grossa e pressapochismi di sceneggiatura. Adattando due diversi libri, la Chadha identifica nel palazzo del Viceré di Delhi il luogo intorno al quale sviluppare il film, nel momento in cui arriva l’ultimo reggitore britannico, Lord Mountbatten, reduce dal successo nella non lontana Birmania, con il compito di restare per sei mesi e gestire l’abbandono dell’India.
La regista respinge la vulgata passata alla storia - nei libri scolastici britannici e nel kolossal Gandhi di Attenborough - di un Viceré costretto a proporre la partizione a seguito delle rivolte interreligiose, con tutta la responsabilità agli indiani. Lo mette subito in chiaro con una scritta che apre il film, “la storia è scritta dai vincitori”, accusando le lotte politiche intestine di oltremanica, all’insegna del motto “divide et impera”. Se Gandhi viene rappresentato come superato dall’arroganza dei nuovi protagonisti della politica locale, ormai inascoltato, tanto da dormire beatamente durante i festeggiamenti per l’indipendenza (“non c’è niente da festeggiare”), la figura che mantiene, piuttosto sorprendentemente, una certa purezza d’animo è Lord Mountbatten, vicino con la moglie alle esigenze dei popoli asiatici, usato come una marionetta per finalità geopolitiche ed economiche. Beffardamente questo ambiguo periferico protagonista della storia finirà ucciso da altri rivoltosi per la libertà, i terroristi irlandesi dell’IRA.
Vicerey’s House è un minestrone incapace di coniugare le piccole storie esemplari con il grande agire della Storia, pur popolato della consueta schiera di impeccabili interpreti britannici, da Hugh Bonneville a Michael Gambon, dal compianto Om Puri a Gillian Anderson.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito