Le Redoutable: recensione del film di Michel Hazanavicius in concorso al Festival di Cannes 2017
Un racconto in chiave comica di Godard e del rapporto con la sua seconda moglie.
Non appena si è diffusa la notizia che Michel Hazanavicius avrebbe realizzato un film su Jean-Luc Godard, visto dal punto di vista della sua seconda moglie Anne Wiazemsky, in molti hanno pensato: ma chi gliel’ha fatto fare? Noi fra questi, volendo essere sinceri.
Mestierante per anni del cinema e della televisione francese, specializzato in parodie di spionaggio insieme al sodale Jean Dujardin, è al centro di un gigantesco equivoco internazionale: al di fuori dei confini francesi ritenuto un sofisticato autore, dopo il successo agli oscar di The Artist, in patria etichettato come un artigiano e poco amato. Il risultato di questo sdoppiamento è stato il fallimento ponderoso, quanto le ambizioni mal riposte, di The Search, fischiato sonoramente a Cannes. Un’accoglienza critica in patria che ha indispettito molto (e pubblicamente) Hazanavicius, che probabilmente in Le Redoutable, oltre a omaggiare Godard ha voluto intaccare l’idolo, demitizzarne la valenza engagé, che rimane un caposaldo dell’ideologia critica di molti dei suoi “nemici”, su carta stampata o pixel.
In fondo è tornato alle origini, mettendo in scena un ibrido fra la parodia e l’omaggio affettuoso di The Artist, confidando sulle capacità mimetiche di Louis Garrel per dare calore umano a Godard, evitando il rischio della macchietta. Operazione riuscita solo in parte, e non certo nei confronti di molti personaggi di contorno, come gli improbabili Bertolucci e Ferreri, che popolano questo universo decisivo per la carriera dell’autore svizzero. La storia prende inizio nel 1967, quando Godard è il regista più adorato della sua generazione, reduce dalle riprese de La cinese con Anne Wiazemsky, donna più giovane di vent’anni di cui si innamora e sposa. Proprio da un suo libro, Un an aprés, è tratto il film.
Sono gli anni del massimo impegno politico, in prima linea con gli studenti e gli operai nelle sassaiole del maggio parigino. L’artista impegnato si sporca le mani, rinnega l’icona pubblica, non disdegna qualche molotov da tirare sulla polizia, prendendosi una breve vacanza in Costa Azzurra per forzare la cancellazione, insieme a Truffaut, Lelouch e altri colleghi, dell’edizione 1968 del Festival di Cannes.
Godard liquida tutto il cinema come borghese inginocchiamento al capitale dei grandi produttori, rinnega anche i suoi capolavori, come Fino all’ultimo respiro e Il disprezzo, finendo per insultare tutto e tutti, anche il suo amico Bernardo Bertolucci. L’unica soluzione per lui è imporre all’artista il collettivismo decisionale, applicando il maoismo alle troupe cinematografiche attraverso l’esperienza produttiva del gruppo Dziga Vertov. Anche il suo film del 1967, La cinese, lo deprime; accolto male dai critici e persino dall’ambasciata cinese, sembra piacere solo a qualche fondamentalista marxista leninista, ma in fondo tutti lo fermano per citargli i film del suo passato più narrativo e “tradizionale”. “Quando tornerà a fare film come quelli?”, gli chiede persino un militante in marcia con lui per le vie di Parigi. Inseguendo gli umili e gli operai si preoccupa di rendersi sempre meno comprensibile da loro, rifugiandosi nell’eremo dell’ermetismo ostico, della sperimentazione rivoluzionaria.
Hazanavicius rappresenta Garrel/Godard come una specie di Woody Allen, maschera ironica con occhiali - regolarmente schiacciati durante gli scontri -, alle prese con delle scarpe poco adatte all’azione che lo portano a poco militanti lavande ristoratrici una volta tornato a casa. Il re è nudo, in Le Redoutbale, o meglio vuole denudarsi in prima persona, specie all’inizio, quando la sua libertà anarchica lo porta verso una leggerezza che presto perderà, divertito nel giocare con il suo mito e ossessionato dal rendersi antipatico e irritante, rinnegando il suo spazio iconico.
Divertente, ma banalotto, dissacrante, ma anche sempre in superficie, il Godard visto da Hazanavicius rimane a metà: senza il coraggio di spingere fino in fondo la caduta del Dio Jean-Luc, lo ritrae come un “maschio medio” che cerca una donna oggetto spacciandola per musa, ma non problematizza la sua personalità debordante, il suo rapporto idiosincratico con la società. Gli adoratori del Grande Svizzero reagiranno a forconi spianati, troveranno risibili gli omaggi formali godardiani di cui il film è pieno, gli occhiolini autoreferenziali al pubblico (“Sono solo un attore pessimo che interpreta Godard”); gli altri si lasceranno andare a qualche risata, con la speranza che siano spinti a vedersi qualche suo film, precedente a quegli anni.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito