Il Gladiatore II: la recensione del film di Ridley Scott
Un po' sequel, un po' remake; un po' Shakespeare, un po' soap opera; un po' videogioco, un po' (poco, o forse tanto) cinema contemporaneo. Ma c'è Denzel, e c'è la politica. La recensione di Il Gladiatore II di Federico Gironi.
Un sequel, ma pure un po’ un remake.
La struttura del Gladiatore II è praticamente la stessa del film precedente, anche se cambiano un po’ i nomi, la generazione è quella successiva, e lo scempio della storia romana è sempre lo stesso. Ma io non sono Alessandro Barbero, e per quanto mi possa far del male al cuore vedere delle incisioni in lingua inglese in quelli che dovrebbero essere i sotterranei del Colosseo o nelle domus delle più importanti figure dell’impero di Caracalla (e del suo qui non cancellato gemello Geta), so anche che questo è un film, e la verosimiglianza storica non è un obbligo.
Quel che sarebbe d’obbligo riguarda il cinema, certe esigenze che riguardano lo spettatore, e non sempre Ridley Scott e i suoi collaboratori, qui, sono stati alle regole (del gioco).
Dal punto di vista delle immagini, il cinema di Scott rimane potente e aggressivo, anche se qui, al contrario di quanto avveniva in Napoleon, il contributo del computer contribuisce a far sì che la sua Roma sia davvero troppo simile a una versione contemporanea da parco giochi fisico e digitale, che a una pur legittima ricostruzione cinematografica. Le scene di combattimento sono veementi, e assai sanguinarie, tra arti mozzati, belve infuriate e altre facezie gladiatorie. Certo, il pathos non è lo stesso del primo film, l’epica nemmeno, ma non è che siano questi i problemi maggiori del Gladiatore II, che non annoia mai (troppo) perché quel che fa, sempre, è esagerare. Sparala grossa.
Non lo sono nemmeno gli attori: Paul Mescal - che piace tanto a femmine etero e maschi omo, anche se io non capisco - non vale un unghia dell’attore Crowe, ma chissene importa, ha una sua presenza. A Connie Nielsen, per barare sugli anni trascorsi, vengono sparate addosso luci come nemmeno a Lili Gruber; Fred Hechinger è bravo nei panni dell’isterico e infantile Caracalla e Pedro Pascal fa il minimo sindacale. Perché tanto a tirare su le sorti della categoria c’è Denzel Washington, che pure nei panni di un improbabile e shakespeariano Macrino fa delle robe sensazionali, confermandosi uno dei migliori al mondo, in certi ruoli forse il migliore e basta.
E allora?
Allora tutto è sfacciatamente fasullo, reiterato, ripetuto, già visto. Più artificiale. Anche se, a pensarci, non poteva che essere così, e c’è quindi una certa coerenza sul piano dell’immagine.
Ma non bastano le battaglie navali al Colosseo con tanto di squali famelici in quel metro d’acqua in cui si è allagata l’arena. Non bastano le pensosità e le lacerazioni interiori del Lucio di Mescal, o i suoi bicipiti in vista. Il Gladiatore II sembra davvero un film di dubbia utilità e ancor più dubbia riuscita se non del punto di vista di una chiara ma sterile muscolarità cinematografica dell’insieme, che si porta addosso problemi che nascono dalla sceneggiatura ma si espandono un po’ in tutti i settori.
A meno che non si vogliano vedere le cose da un altro punto di vista.
Allora forse vuol dire qualcosa che il fatto che la trama sia quella che è, tutta incentrata (di nuovo, certo) sul sogno di Marco Aurelio di una Roma diversa. Allora forse è indicativo che il Macrino di Washington, nelle sue macchinazioni e nella sua brama di potere, ex schiavo che sogna di diventare imperatore, sia il personaggio più importante e affascinante del film. Allora forse tutto questo parlare di congiure, intrighi, panem et circenses non è funzionale solo alla struttura un po’ da soap della storia, ma a quello di cui Scott vuole davvero parlare. Ovvero di noi. Forse, stai a vedere, dello stato delle cose e della politica nel mondo contemporaneo.
Degli imperatori grotteschi e populisti e manovrabili e ricattabili che ci governano, della loro inettitudine nel capire di cosa abbia davvero bisogno la gente, e di cosa la democrazia; delle figure che si muovono nell’ombra per togliere loro quel potere vuoto e continuare sulla stessa, oscurantista strada. Forse Scott ci vuole dire che un Lucio, per quanto poco carismatico, noi non ce l’abbiamo, nemmeno all’orizzonte.
E la democrazia pian pianino muore: nell’oscurità, così come nella luce. Oscurità e luce che si alternano nel film di Scott, e fuori dalle nostre sale cinematografiche.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival