Hereditary - Le radici del male: la nostra recensione del film horror con Toni Collette

12 luglio 2018
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Osannato negli Stati Uniti, sembra la versione più patinata e fighetta di un qualsiasi horror Blumhouse, dove la paura si stempera sempre nella forzatura formale e in qualche momento ridicolo.

Hereditary - Le radici del male: la nostra recensione del film horror con Toni Collette

Che tipo di film sia, Hereditary, lo capisci da subito.
Lo capisci dall'insistenza sulle miniature e i diorami realizzati dal personaggio di Toni Collette, che ricreano la realtà della sua famiglia e delle cose, e vi sovrappongono in maniera formalista: e se questo per l'esordiente Ari Aster ha un significato coerente con la storia che vuole raccontare - preodinazione e manipolazione esterna della vita -, per noi che guardiamo è il primo, inconfondibile segnale di quella voglia di utilizzare un'estetica furbetta e patinata che è automaticamente legittimazione presso la critica e il pubblico mainstream.
Lo capisci anche da quando Collette, in una delle prime scene del film, si mette a frugare dentro uno scatolone che ha sopra una scritta bella evidente: "Mom's Things". Perché, a dispetto del tentativo di darsi arie misticheggianti e misteriose, tutto - ma proprio tutto - in Hereditary porta stampigliata sopra una quale scritta o etichetta che spieghi implicitamente a chi sappia guardare cosa si sta guardando, levando ogni ambiguità, annacquando possibile reale oscurità.

Peccato, però, che dentro la scatola di Hereditary, sotto le etichettature, dietro la superficie studiata per regalare quell'aspetto art house così nobilitante (perché l'horror, e il genere, non si possono accettare come sono, devono essere "d'autore" per far breccia nel cuore della critica), dietro a una durata pretestuosa e a scelte di casting forzate e una recitazione sempre troppo sopra o troppo sotto le righe (col beneficio del dubbio imposto dalla visione di una copia doppiata), e al costante e ossessivo tentativo di essere misterioso, perturbante e inquietante che viene dai dettagli ostentati e dalle situazioni para-lynchiane, peccato che dietro a tutto questo ci sia ben poco.
Non si può, infatti, trattare come una novità il fatto che il cinema - di genere o meno - racconti della famiglia non come luogo degli affetti o porto sicuro, ma come prigione e incubo e devastazione; né che - con scelta ideologica quantomeno opinabile - si impongano il DNA e il legame di sangue e le tare familiari come qualcosa di inevitabile e segnante in ambiti e misure che vanno ben oltre quelli regolati dalle normali leggi della genetica, o della formazione ambientale.
E non si può pensare, nel 2018, di riportare al cinema argomenti satanici che si pongano sulla falsariga di film come Rosemary's Baby o L'esorcista (citati più o meno esplicitamente) senza che ci sia uno sforzo serio di rielaborazione dei temi, quando non, magari, di un pizzico di originalità.

Aster - che dal punto di vista tecnico è sicuramente preparato, e che le idee le ha comunque ben chiare - opta per uno sviluppo lento, per una progressione che vorrebbe ipnotica e capace di far entrare sotto la pelle dello spettatore le atmosfere del suo film, togliendogli il fiato ma impedendogli di togliere gli occhi dalle visioni più o meno disturbanti che gli vengono imposte sullo schermo.
Si tratta, ancora una volta, di una strategia di legittimazione, della voglia di darsi un tono: così facendo, però, dando il tempo necessario all'elaborazione, espone anche il fianco alla più logica ed evidente delle obiezioni che si possono sollevare ad Hereditary. Cioè quella per cui, con tutta la sua cura formale e con tutte le sue ambizioni narrative, il film risulti essere poco più di una versione vestita per le grandi occasioni di un horror standard della Blumhouse.
Poco importa, allora, che magari Hereditary faccia a tratti più o meno paura, o che azzecchi questa o quella scena, o quella situazione, sempre controbilanciate però da altre che - francamente - rasentano il ridicolo involontario (e se non faccio esempi, è per non spoilerare).
Una schizofrenia, questa, che si fa sentire sempre più evidente col procedere della storia, e che esplode platealmente in un finale talmente eccessivo, perturbato, parossistico, e costruito, da suscitare sia qualche brivido lungo la schiena sia, allo stesso tempo, la risata. Dove - meglio - il brivido viene sublimato nella risata.
E non so quanto questo possa essere un complimento, per un film horror che, invece, si prende così tanto sul serio.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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