Hellboy: sangue, parolacce e rock'n'roll nel reboot di Neil Marshall e David Harbour
Arriva nei cinema italiani in prima mondiale il reboot cinematografico delle avventure del personaggio creato da Mike Mignola, che spinge forte sull'ironia, la violenza e l'insensatezza più liberatoria.
Hellboy. Grande, grosso e rosso. Hellboy, con le corna limate e gli occhi gialli (“giallo come il piscio, il mio colore preferito”, ringhia l’oscena strega Baba Yaga al nostro eroe).
Hellboy, che spara battute a raffica perché sparare battute è il suo modo per normalizzarsi, dice lui citando la sua analista.
Hellboy, l’eterno adolescente in conflitto con papà Trevor Bruttenholm, che non capisce le scelte del genitore (a partire da quella di averlo preso con sé invece di ucciderlo, tanti anni prima), la sua esistenza, il suo ruolo: perché alla fine non capisce sé stesso, e la sua natura.
E uno dei modi per leggere questo nuovo Hellboy firmato da Neil Marshall è appunto quello di un personaggio che non deve tanto abbracciare la sua natura, quando arrivare ad avere comprensione di sé, e di quello che vuole essere: non in base a “una stupida profezia”, ma usando la sua testa.
Un altro, volendo, potrebbe essere quello di fare attenzione a tutti i discorsi che il Rosso porta avanti sul suo essere costretto a dare la caccia a creature del Male che forse tanto male non farebbero se lui, e altri, non gli dessero la caccia; anche se sono discorsi che poi finiscono col giustificare, politicamente, posizioni poco progressiste.
Oppure, si possono mettere da parte queste e altre letture del testo, che sono tutto sommato pretestuose e comunque superflue, per abbandonarsi completamente alla ludica sarabanda di arti mozzati, occhi cavati, decapitazioni, sbudellamenti, combattimenti, mostruosità più o meno spaventose o giocose che ci propone.
Ed è sicuramente la cosa migliore.
Marshall non sarà tornato quello di The Descent, ma perlomeno un pizzico del vecchio sé stesso di Dog Soldiers o di Doomsday in questo nuovo Hellboy ce l’ha messo. Così come si è messo senza vergogna alcuna allo stesso livello mentale del suo protagonista, girando quindi un film che ama menare le mani, sparare cazzate, dire parolacce e ascoltare musica ad alto volume. Non le “schifezze acustiche da hippie” dell’amico che Hellboy deve andare a recuperare a Tijuana all’inizio della storia (trovandosi di fronte una bella sorpresa), ma la “musica vera”. Che poi sarebbe il rock, meglio se hard. Meglio ancora se metal.
Nelle mani di Marshall, e con la supervisione di Mignola, questo Hellboy abbraccia senza timore le derive più horror del fumetto, traducendole in uno stile che a tratti sembra ricordare certi aspetti di quello rustico e low budget del Raimi di La casa e di certo cinema horror anni Ottanta più o meno demenziale, ma con più soldi e le tecnologie digitali (usate con piglio dichiatamente antirealistico) a disposizione.
Streghe bellissime come quella di Milla Jovovich o disgustose come Baba Yaga, creature umanoidi con la testa di cinghiale che parlano scozzese, giganti affamati di midollo, demoni infernali e zombie che escono dal terreno urlanti e incartapecoriti, mentre la storia ti porta da Tijuana a Denver, e da lì fino alle campagne inglesi, a Londra e perfino alla coste irlandesi, dove Hellboy scoprirà in che modo il suo destino si incrocia con quello di Artù e di Excalibur, e perfino del Mago Merlino.
Fino a tornare a nella capitale britannica per il gran finale, dove Hellboy, spalleggiato dalla Alice Monaghan della irresistibile Sasha Lane e da Ben Damio, farà i conti con sé stesso e col suo destino.
Con ritmo serrato, sangue a litri e umorismo sfrenato e scorretto, ellissi continue ed esteme, e ben poco riguardo per le esigenze della razionalità, della verosimiglianza e della pignoleria.
Non è certo un film perfetto, né un capolavoro nel suo genere, l’Hellboy di Neil Marshall e David Harbour.
Ma in anni in cui questo genere di cinema d’evasione di matrice fumettistica (ma anche non) è diventato così magniloquente, istituzionale, patinato, raffinato, e a modo suo così pesantemente serioso, oltre che noiosamente seriale, un film così rabberciato e scorretto, leggero e divertito, esagerato ed esagitato come questo, che sembra guardare dritto alle radici anni Ottanta del filone cui appartiene, è una boccata d’ossigeno e anarchica e demenziale libertà che non si può non salutare col sorriso sulle labbra.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival