Gli indifferenti: la recensione

20 novembre 2020
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Leonardo Guerra Seràgnoli adatta, dopo Citto Maselli e Mauro Bolognini, il romanzo omonimo di Alberto Moravia. Che quasi cento anni dopo, racconta il giovane regista implicitamente, fotografa ancora alla perfezione la borghesia italiana. Gli indifferenti sarà disponibile on demand dal 24 novembre sulle principali piattaforme.

Gli indifferenti: la recensione

Alberto Moravia scrisse “Gli Indifferenti” giovanissimo, tra i suoi diciassette e i ventidue anni, tra il 1925 e il 1929, quando il romanzo venne pubblicato per la prima volta.
Siamo nel 2020, Leonardo Guerra Seràgnoli di anni ne ha quaranta, e il romanzo di Moravia l’ha portato al cinema con un’ambientazione contemporanea ma con una fedeltà al testo originale quasi assoluta.
La prima cosa che colpisce, allora, è che personaggi di quasi cento anni fa, le loro psicologie e le loro dinamiche, siano perfettamente attuali, credibilmente  contemporanee. Come se, in questi quasi cento anni, le dinamiche della borghesia e della società italiana tutta siano rimaste immutate. Le stesse.

L’effetto è straniante. E spaventoso.
C’è da supporre sia stata questa consapevolezza a spingere il regista a portare nuovamente “Gli indifferenti” al cinema, a quasi sessant’anni dal film di Citto Maselli (che per primo adattò il romanzo, mantenendo però l’ambientazione anni Venti) e più di trenta dalla miniserie di Mauro Bolognini trasmessa dalla Rai.
Anche perché sul doppio registro tra passato e presente, e sulla loro perfetta consonanza, giocano costantemente le scenografie, i costumi e perfino le musiche di questo Gli indifferenti versione 2020.

Basterebbe guardare l’appartamento degli Ardengo, un attico che è facile localizzare in Piazzale delle Muse, nel cuore dei borghesissimi Parioli, a Roma.
Un appartamento quasi bipolare nel modo - paradossalmente armonico e bilanciato - in cui mescola gli stili, sembrano allo stesso tempo, o alternativamente, una casa di allora e una dei nostri tempi. Una casa fuori da ogni tempo, permeabile a un cambiamento di facciata (mai comunque radicale) ma che rimane sempre ferma sui suoi punti fermi identitari, e non evolve mai. Una casa che è pura rappresentazione fisica della borghesia moraviana.

Leonardo Guerra Seràgnoli rimane attaccato al testo di Moravia. Anche chi non ha letto il romanzo può confrontare la sinossi del libro su Wikipedia e scoprirla identica a quella del film.
Lo fa, a ragione, per due motivi: il primo risiede appunto nella consapevolezza di quanto quello che Moravia scrisse allora è perfettamente adattabile al presente; il secondo è che per tradire quel testo ci vogliono un coraggio e una capacità di rielaborazione che, forse, il regista non ambisce ad avere, e che preferisce mettere da parte in nome del rispetto a un romanzo fondativo della nostra letteratura novecentesca.

Eppure, a ben vedere, un tradimento c’è, e assai significativo: quello che arriva nel finale, e che vede protagonista la giovane Carla, che rispetto al romanzo ha ancora meno anni (18, e non 24) e che è stata trasformata da Guerra Seràgnoli in una gamer.
È un tradimento che odora di speranza, forse, sebbene disperata e vagamente isterica: l’unica possibile, da parte dell’unico personaggio che pare capace di spezzare la noia, l’indifferenza e la rassegnazione, e di provare a sorridere al domani.

A interpretare Carla c’è Beatrice Grannò: poco nota, e brava nella parte. Ma Guerra Seràgnoli azzecca anche il resto del cast. Nei panni di Michele, Vincenzo Crea, quello lanciato da Andrea De Sica con I figli della notte, che qui trova il modo di rendere totalmente funzionale la sua recitazione così afasica e atonale: l’indifferente per eccellenza, al netto di sfoghi rabbiosi che sono poco altro che capricci di un bambinetto.
E c’è soprattutto Valeria Bruni Tedeschi, che fa come al solito, magnificamente, Valeria Bruni Tedeschi, eppure pare nata apposta per portare al cinema il personaggio di Mariagrazia, regalandole un umanissimo patetismo che il romanzo non aveva. Anche Edoardo Pesce, idealmente perfetto per Leo (pensate a Dogman, pensate a Fortunata), è meno mostruoso della sua controparte letteraria, e più inerte, più superficialmente ripulito

Pulita e lineare è anche la messa in scena del film, la cui geometria, e una certa freddezza, sono studiate ad arte per adeguarsi al racconto di Moravia e alla sua risonanza nella Roma e nell’Italia dei nostri giorni.
Tanto che, in tutta questa precisione e in tutta quest’aderenza, viene quasi da chiedersi dove stia l’emozione, e dove il ragionamento. Il rischio, per dirla altrimenti, è che Gli indifferenti si esaurisca nella sua superficie, e che a forza di ricalcare la monodimensionalità voluta e cercata, la noia e l’apatia e l’amoralità dei suoi personaggi, non riesca a darsi lo spessore che cerca.

Il fatto è che, probabilmente, non solo le cose non sono cambiate, in cent’anni quasi di storia, ma che anzi siano ulteriormente peggiorate.  
Degli afflati ideali - perfino quelli negativi - che s’affacciavano nei personaggi di Moravia e nella società che descriveva non c’è più traccia; perfino le pulsioni erotiche sembrano oramai diventate meccaniche, e sfumano al frigido; e all’accettazione opportunista dei compromessi più beceri si affianca anche la negazione, che è anche peggiore, perché rimuove la realtà per costruirne una diversa.

Non sorprende, allora, che Leonardo Guerra Seràgnoli abbia cercato uno scarto, una parziale via di fuga a tutto questo, ipotizzando - ma solo ipotizzando - la possibilità di un cambiamento.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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