Fino all'ultimo indizio: recensione del thriller con Denzel Washington, Rami Malek e Jared Leto
È disponibile in esclusiva digitale dal 5 marzo su tutte le principali piattaforme digitali questo film di John Lee Hancock che racconta della caccia di due poliziotti a uno scaltro serial killer. La recensione di Federico Gironi.
Ho realizzato solo dopo averlo guardato per un po’ che Fino all’ultimo indizio non è solo un thriller gradevolmente vecchio stile, ma è proprio ambientato nel passato. In un periodo che, all'apparenza, potrebbe essere compreso la fine degli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta. Che poi sono gli anni in cui è stato scritto da John Lee Hancock.
Questo potrebbe dire alcune cose sulla mia disattenzione; o forse, e più probabilmente, dirne altre sulla sottile abilità di Hancock di calare lo spettatore dentro il suo film, dentro un mondo da lui ideato e plasmato con grande attenzione alla coerenza tra il tipo di storia che racconta e il modo in cui questa storia viene raccontata.
Ci sono poi altre cose che invece percepisci proprio da subito, guardando Fino all’ultimo indizio (che poi, non si sa cosa avesse fatto di male il titolo originale, che è The Little Things, "le piccole cose", che personalmente trovo molto più bello e calzante). Per esempio, percepisci subito che dietro il fare stazzonato e appesantito del personaggio di Denzel Washington, un fare che è tanto fisico quanto mentale, non si nasconde un malessere alla Mel Gibson di Arma Letale, o alla Bruce Willis di Die Hard, quel tipo di malessere che fa maledettismo e che è sempre pronto a essere stemperato e reso ancor più fascinoso dall’ironia, ma qualcosa di più cupo e malato, e ossessivo, e distruttivo. Qualcosa legato a quella che non è semplicemente la consapevolezza del male del mondo, ma l’esserci entrati dentro con tutte le scarpe, in quel male, e non esserne usciti puliti.
E percepisci subito che quel malessere lì è destinato ad avere un ruolo fondamentale in quel che il film racconta.
Fino all’ultimo indizio vede Washington nei panni di un vice sceriffo di provincia con un passato difficile e irrisolto come detective a Los Angeles. E quando torna in città per quello che doveva essere un veloce incarico burocratico, incrocia la sua strada con il personaggio di Rami Malek, giovane stella del dipartimento locale che pare essere il suo opposto. Eppure, i due finiranno per lavorare insieme per dare la caccia a un killer (Jared Leto) che Washington ritiene essere lo stesso con il quale ha un conto aperto che gli ha distrutto vita e carriera.
Nella dinamica tra i due, e in certi risvolti della trama e delle indagini, e perfino in certe immagini, specie quelle che appaiono nel finale, il film di Hancock fa venire in mente Seven. Per altri aspetti, tanto di forma quanto di sostanza, sembra quasi che Hancock abbia preso a modello certe cose di Zodiac.
Che poi John Lee Hancock non sia David Fincher lo sappiamo e lo vediamo, e lo sa per primo anche lui, che non dà mai l’impressione di voler strafare, o di mirare più in alto di quanto non sia capace di colpire. Hancock è però uno che, con i suoi film, ha sempre teso a raccontare una sorta di controstoria americana, portandone alla luce lati e personaggi meno conosciuti, quando non direttamente, come in questo caso, le sue zone d'ombra. E, a ben vedere, questo Fino all’ultimo indizio non è solo un thriller che racconta della caccia di due poliziotti ossessionati a un serial killer, e del gioco al gatto col topo che questi fa con loro, ma porta alle estreme conseguenze quel crepuscolarismo e quella visione così sofferta e controversa della legge già illustrata nel precedente Highwaymen.
Non è magari particolarmente originale, e in alcuni casi sembra quasi derivativo, Fino all’ultimo indizio. Ma non va dimenticato che è stato scritto prima che quelli che oggi appaiono come modelli fossero stati persino pensati. E poi conta su una regia di solido mestiere come quella di Hancock, e sulle interpretazioni di Washington e Leto (Malek è per me molto meno convincente).
Soprattutto, è un film che fa onore al suo titolo originale, e a quella frase che ripete sempre il personaggio di Washington: un film nel quale sono le piccole cose, i dettagli, che siano un ciondolo di un portachiavi o una molletta per capelli, a fare la differenza e avere la capacità di contenere e raccontare una storia.
A fare cinema, e non solo contenuto.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival