È stata la mano di Dio, la recensione: Paolo Sorrentino in concorso a Venezia racconta la sua storia e la sua città
Progetto personale e sentitissimo, nel quale rievoca la morte di entrambi i genitori quando era ragazzo, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è un film bellissimo, maturo e commovente, nel quale lo stile del regista trova sintesi ed equilibri sorprendenti. La recensione di Federico Gironi dal Festival di Venezia 2021.
La prima immagine di È stata la mano di Dio è quella del mare. Il mare del golfo di Napoli visto dall'alto. Il mare che è azzurro, come la maglia del Napoli. Il mare che ritorna ossessivamente, nel nuovo film di Paolo Sorrentino, fatto, anche, di gite in gozzo, bagni, tuffi, tantissimi tuffi. Un mare che è orizzonte e speranza ("tu non hai un dolore, hai una speranza", grida Antonio Capuano al giovane Fabio Schisa, alter ego sorrentiniano nel film). Il mare che è libertà, e sul quale - spiega a Fabio l'amico delinquente e sognatore Armando - gli offshore che fanno a duecento all'ora fanno "tuff... tuff...".
Il mare che Napoli stessain un film che racconta, anche, quella città e le mille storie che contiene, oltre che la storia di formazione di Fabio e la vicenda privata di Sorrentino.
Dopo un prologo surreale con un San Gennaro che viaggia su una Rolls Royce d'epoca, utile a introdurre la musa del film, la bellissima e pazza zia Patrizia, simbolo supremo delle ossessioni erotiche adolescenziali di Fabietto, l'inizio di È stata la mano è commedia, purissima. Divertentissima.
Casa Schisa, un nido d'amore e risate.
Ma lentamente, inesorabilmente, il film si prepara a cambiare, e il giovane Fabio è costretto fare i conti non solo con la sua malinconia, e con una solitudine timida, ma con l'infiltrarsi nell'orizzonte della sua consapevolezza dei lati meno lieti e più adulti della vita: il cinismo della Baronessa Focale che abita sopra casa sua, la disillusione dello zio Alfredo, la cattiveria della signora Gentile. Perfino una crepa inquietante nell'amore idilliaco dei suoi genitori.
Per fortuna c'è Maradona. Maradona che per Fabio è l'antidoto a tutto questo, la possibilità forse d'ignorare ancora l'età adulta, sicuramente l'illusione in cui cullarsi. L'illusione di una vita da sogno. Ma la vita è realtà, e la realtà è scadente: lo dice Fellini.
Fabio lo ripeterà dopo che quella stessa vita gli assesta il suo colpo più duro, che arriva proprio quando lui continua a inseguire Maradona che lo salva, certo, ma al tempo stesso lo condanna a inseguire il sogno per sempre: non nel calcio, ma nel cinema.
Il cinema è sogno ed evasione.
Lo sappiamo noi, lo sapeva quel Fellini il cui spirito aleggia su È stata la mano di Dio già dall'ingorgo stradale che mette in scena nei suoi primi minuti, parallelo e opposto a quello di 8 1/2. E lo sa benissimo Paolo Sorrentino.
Del mare che omaggia, È stata la mano di Dio ha il movimento, il ritmo, la fluidità. Del sogno la capacità di affascinare, spiazzare, sorprendere, addolorare, commuovere; di mettere insieme cose impossibili (un esempio su tutti: l'anacronismo di Capuano), di conciliare gli opposti.
Sogno fattosi cinema, È stata la mano di Dio si dispiega, di fronte a tutti noi che lo stiamo sognando nel buio di una sala cinematografica, con enorme intensità emotiva e al tempo stesso una salutare distanza che evita ogni eccesso retorico e melodrammatico, mescolando onirismo e consapevolezza. Sorrentino, ed è incredibile nel contesto di un film così intimo e personale, sa sempre quando lasciarsi andare, e lasciar andare il suo cinema barocco e visionario, e quando invece trattenersi, lavorare in levare: toni, battute, situazioni.
Il suo è un sogno intenso, liberatorio e catartico, dove con una sincerità intensa, calda e dolorosa può gridare al mondo, per bocca di Fabio, la storia che ha tenuto annodata dentro di sé per una vita: quella di un ragazzo cui non è stato permesso di vedere i suoi genitori, morti in un incidente terribile e tragicamente banale, e che ha dovuto imparare da solo a guardare al futuro.
La quantità di dettagli e sfumature messi in scena nel film ha dell'incredibile.
Basti pensare a come Sorrentino racconta le case napoletane, il loro arredamento, i ninnoli, i soprammobili. Il barocco borbonico di casa Focale, il minimalismo borghese e un po' kitsch degli Schisa, il modernismo anni Ottanta di casa di zia Patrizia. E ancora: le tavolate di famiglia, i pentoloni di sugo di pomodoro, le bottiglie che vengono riempite di passata. I motoscafi dei contrabbandieri, la piazzetta di Capri deserta attraversata da Adnan Khashoggi e dal suo flirt spagnolo. I locali del porto, piazzetta Serao.
Sorrentino si confronta col suo passato attraverso la sua città, riletta e rivista attraverso l'occhio del cinema, così come Fellini fece con la sua Rimini in Amarcord.
Fa i conti con quella Napoli dalla quale, come dice ancora Antonio Capuano a Fabio, nessuno se ne va mai davvero. Tantomeno quelli che sono andati a Roma: "i strunz’".
Per Fabio, lasciare Napoli, certi luoghi, certi ricordi, la città in cui è stato abbandonato, significa la possibilità di continuare a sognare.
"Non disunirti", gli dice Capuano, di fronte alla sua rabbia e al suo dolore. E per non disunirsi, Fabio va a Roma.
Mentre va a Roma ascoltando però - in quelle cuffiette del walkman che ha avuto con sé per tutto il film, e che Sorrentino ha utilizzato in maniera sempre astutamente controintuitiva, fino a quel momento - la canzone che nei confronti di Napoli è la dichiarazione d'amore più commovente.
"Napule è" è l'unica canzone di È stata la mano di Dio, film di un regista che le canzoni (e più in generale la musica, e gli effetti sonori: anche qui importantissimi) l'ha sempre usata tanto, fino a farne un marchio di fabbrica. Arriva nel momento in cui Fabio si arrende al suo destino, al futuro, al sogno, con la benedizione del munaciello già apparso a zia Patrizia.
Il momento in cui Fabio si trasforma in Paolo.
Un Paolo che, da allora, non si è più disunito. Tantomeno in questo film bellissimo, maturo, commovente.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival