È solo la fine del mondo: recensione del film di Xavier Dolan in concorso al Festival di Cannes 2016

19 maggio 2016
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Claustrofobico e isterico, il kammerspiel versione Dolan dominato ancora una volta dall'ossessione per la madre e dalla voglia di sfoggiare la propria bravura.

È solo la fine del mondo: recensione del film di Xavier Dolan in concorso al Festival di Cannes 2016

Poi dice che uno scappa.
Scappi sì, se la famiglia che ti fa levare le tende e non tornare per dodici anni è quella di Juste la fin du monde: scappi e non vedi l'ora di fuggire di nuovo, esattamente come accade a Louis, scrittore di successo che torna da figliol prodigo ma solo per “sganciare la bomba”: per annunciare la sua morte imminente.

Torna a casa Louis, che ha il volto spigoloso e patito di Gaspard Ulliel, senza forse covare troppe speranze ma di certo non pronto alla nevrosi elettrica e urticante che si ritrova di fronte, a dinamiche familiari che la sua lunga assenza, e il suo ritorno, hanno solo portato al parossismo: a una madre opprimente e ingombrante (Nathalie Baye), un fratello maggiore aggressivo e scontroso, vittima di un evidente complesso d'inferiorità (Vincent Cassel), una sorella minore mai davvero conosciuta e che lo guarda come un mito (Léa Seydoux), mentre gli occhi della cognata vittima del carattere del marito (Marion Cotillard) sembrano chiedergli aiuto e pietà.
Ma Louis, che ha quel segreto ingombrante di cui liberarsi, che è sempre stato quello silenzioso e sensibile, quello intelligente e omosessuale, non è pronto ad assumere il ruolo di salvatore dalle miserie e dai tormenti dei suoi familiari, non ne è capace e forse non vuole nemmeno. Ci prova, magari, ma le cose non vanno secondo il piano che gli espone mammà.

La mamma, ancora lei, sempre lei. Ossessione della quale Xavier Dolan non riesce a liberarsi, e che domina ancora una volta un film basato su una pièce teatrale del 1990 del francese Jean-Luc Lagarce, morto di AIDS nel 1995.
La mamma, i legami familiari, la scoperta della sessualità (che Louis rievoca in pochi flashback), l'impossibilità di comunicare davvero a dispetto delle urla incessanti e delle parole comunque vuote: il canadese gioca sempre sugli stessi campi, affronta sempre le stesse questioni, cercando di animare con una vitalità registica di notevole impatto ma a tratti eccessiva una struttura narrativa piuttosto statica, composta da una serie di dialoghi a due separati in maniera netta tra loro e da due scene di confronto collettivo.

Ma tutta la potenza delle inquadrature e del montaggio non aiutano Just la fin du monde a riscattare un testo un po' datato e il rimestare nelle sue ossessioni del regista, né soprattutto evitano il senso di claustrofobico soffocamento di un film che fa spettacolo di se stesso a forza di grida e isterismi. Anzi, proprio il barocchismo della messa in scena è l'ulteriore elemento che può portare a saturazione i sensi dello spettatore, e certe piccole (ma grandi) arroganti ingenuità risaltano anche di più.
Avrà pure ancora solo 27 anni, Xavier Dolan, ma è anche arrivato al sesto film: e dovrebbe forse farla finita di fare del vitalismo isterico e nevrotico il suo unico marchio di fabbrica, di giocare all'enfant prodige grazie alla forza della sua regia e delle canzoni pop sparate a volume più alto delle urla, senza porsi il problema di un rinnovamento di certi suoi temi e del confronto con una dimensione diversa (formale e narrativa del suo cinema).

Perché altrimenti fai del tuo film una versione d'autore di una sceneggiata napoletana, pur ammantata di arte e intellettualismo, e minata costamente dall'ansia di dimostrare la tua bravura.
E poi dice che uno scappa.  



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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