Downsizing: recensione del film di Alexander Payne in concorso al Festival di Venezia 2017

30 agosto 2017
2.5 di 5
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Matt Damon è un americano medio che sogna di sfuggire alla sua vita grazie a una scoperta scientifica rivoluzionaria, e diventando un omino alto 15 cm.

Downsizing: recensione del film di Alexander Payne in concorso al Festival di Venezia 2017

Quante volte, schiacciati dal peso delle nostre esistenze (che a sentir noi sono sempre dure, sempre faticose, sempre meno verdi di quelle del vicino di casa o di scrivania), abbiamo pensato "basta, ora cambio vita"? Oppure "apro un chiosco sulla spiaggia", o "me ne vado a vivere in quel paese lì dove col mio misero stipendio campo da nababbo"?
Da sempre l'utopia della fuga è ben radicata nella nostra mentalità, così come quella di una società modello, nuova, perfetta, senza i difetti della nostra: che si tratti di modelli asettici e futuristici, rurali e post-sessantottini, o di un mix di entrambe le cose. Ma si tratta - appunto - di utopie: utili come consolazione ideale, come spazi di evasione momentanea dalla realtà, che a volte fanno anche eccessivamente da scudo a quanto realmente c'è e si può fare nella pratica quotidiana della nostra vita.

Poche righe, queste, per sintetizzare quello che Alexander Payne ha voluto raccontare in 135 minuti di film, attraverso una storia che è tanto semplice quanto ambiziosa, dilatata, caricata a più riprese di temi e contenuti che vengon poi tranquillamente lasciati per strada, dopo essere stati sfruttati a dovere per questa o quella sequenza.
Perché quello che fa il Paul interpretato da Matt Damon - americano medio, medissimo, scomodamente a cavallo tra proletariato e piccolissima borghesia - è proprio questo: abbracciare un sogno, quella di una nuova e più agiata vita in una comunità di esseri umani ridotti in scala e alti 15 cm grazie a una rivoluzionaria scoperta scientifica, che si rivelerà però vano, come vano il tentativo degli scienziati di rendere le società umani più sostenibili.
Nel mondo dei rimpiccioliti, Paul non c'è andato infatti con chi avrebbe voluto (sua moglie si tira indietro all'ultimo, e senza dirglielo), e alla fine scopre che anche lì i problemi - specie i suoi - sono quelli di sempre.
E quando poi, incontro dopo incontro, gli si apre la porticina di una utopia, di una nuova fuga, di un nuovo buco nel quale rintanarsi, la tentazione di rifarci sarà fortissima.

Payne, con quel sorriso blasé e quell'aria da velista perennemente in vacanza, ha con Downsizing provato a fare il Frank Capra dei nostri giorni, raccontando una favoletta edificante e lineare lineare, tirando i ballo il riscaldamento globale, la sovrappopolazione, la crisi economica, la retorica della povertà e dei meno fortunati di questo mondo.
Il suo film prende in giro il gusto tutto americano per le società di plastica e per il consumismo che trasforma l'utopia in parco di divertimenti dal un lato, e il concetto stesso di decrescita e i nuovi modelli sostenibili che vengono invocate per far fronte ai tanti, drammatici problemi del nostro pianeta dall'altro.
Ma dentro una storia che sembra voler rilanciare e rilanciarsi costantemente, tutto questo non è né satira, né riflessione politica, né quel puro intrattenimento di genere che poteva scaturire dal divertente assunto di partenza del film, dai paradossi che possono nascere quando scegli di diventare un "piccolo", abbandonando la vita dei "giganti".

Da Omaha fino ai fiordi norvegesi, Paul si aggira con aria attonita; sarà solo l'incontro casuale con due improbabili contrabbandieri che portano merci di lusso o proibite nel mondo dei piccoli, e quello successivo con un'attivista vietnamita rimpicciolita dal suo governo per rappresaglia e finita a fare la donna delle pulizie, che svilupperà la consapevolezza di cui ha bisogno.
Perché Alexander Payne ha sempre bisogno di dare un colpo al cerchio e uno alla botte: agli edonisti furbacchioni di Christoph Waltz e Udo Kier, piuttosto divertenti, va affiancata l'attivista che pur con una gamba amputata si fa in venti per i diseredati del mondo piccolo. Ai moniti all'acqua di rose circa il destino del pianeta va fatta seguire l'ironia sulle nuove Arcadie e i loro promotori.

Ma non è compresenza vitale degli opposti, non è roba taoista.
È che Payne è così, prende tutta la complessità del mondo e delle cose e poi mescola e condisce, cercando di trovare del buono in tutto, e in tutti. Un umanista, in fondo, un sognatore: come Paul.
Che però non ha voluto rimpicciolire ambizioni in questo caso eccessive, come il minutaggio complessivo del suo film.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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