Decision to Leave, la recensione del film di Park Chan-wook miglior regia al Festival di Cannes 2022
Il grande regista coreano è stato premiato a Cannes per un film sontuoso, sospeso tra l'eleganza del racconto cinematografico classico e la voglia di essere modernissimo nel contenuto e nella forma. Un mélo su amore, perdita e solitudine che s'intreccia con il procedurale, suggestioni hitchcockiane e umorismo sottile e nero.
C’è poco da fare. Quando c’è un regista vero, alla guida di un film, te ne accorgi subito. Ti bastano una manciata di inquadrature per capire che chi le ha pensate, e realizzate, è uno che conosce il mezzo e lo padroneggia, e si può permettere anche di osare, e tu rimani lì a guardare, mentre magari in altre circostanze, con altri registi, lo sguardo e l’attenzione deviano presto dallo schermo.
Ecco, Park Chan-wook è uno di questi registi veri, uno di quelli che del cinema hanno un controllo e una padronanza, e direi anche un rispetto, che poi è anche rispetto per lo spettatore, totali. E che ti sanno raccontare una storia, qualsiasi storia, tenendoti lì appeso, ansioso per le sorti dei suoi protagonisti.
Qui, in Decision to Leave, i protagonisti sono due. Un poliziotto di Busan, Hae-joon (Park Hae-il), e una donna cinese che vive lì dopo essere emigrata, Seo-rae (Tang Wei).
I due s’incontrano perché lui sta indagando sulla morte del marito di lei, caduto da uno strapiombo in montagna, e lei, per una serie di motivi, è una sospettata. Solo che quando questi due s’incontrano, è amore a prima vista. Tenuto sotto controllo, taciuto, negato, ma pur sempre amore. Che complicazione.
Park scioglie dopo un’oretta abbondante di film il dubbio riguardante la colpevolezza di lei, ma Decision to Leave dura due ore e diciotto minuti, e allora questi due amanti non amanti, che a un certo punto il regista separa, torneranno a trovarsi, in un’altra città, circostanze ancora più complicate, e con un altra morte di mezzo. Quella del nuovo marito di lei.
Un po’ thriller d’altri tempi, dai risvolti hitchcockiani, un po’ melodramma temperato dalla voglia di giocare con l’umorismo e ammantato da una sensualità forte ma sentimentale, Decision to Leave è un film nel quale Park riesce a bilanciare in maniera sorprendente, e senza ricorrere mai a facili trucchetti, la potenza e l’eleganza del racconto cinematografico classico con la capacità di essere modernissimo: nel contenuto, certo, ma ancora di più nella forma.
Basta vedere come Park muove la macchina da presa, e usa il montaggio, e con quale apparente facilità riesce a inventare nuovi modi per mettere in relazione e a contatto i suoi protagonisti, per capire come e quanto questa fusione tra tradizione e innovazione sia riuscita.
Quello che però conquista, di questa storia d’amore, di questo dramma sentimentale che parla di solitudine e di perdita, ma sempre con toni di estrema levità, è la capacità di Park di raccontare, tratteggiare, svelare l’intimo e l’animo dei suoi personaggi con pochissimi gesti e parole, costruendo un ritratto vivido e pieno di umanità, rendendo impossibile non avere a cuore quel che sta succedendo sullo schermo. Senza strappi, senza forzature, senza ricatti. Semplicemente lavorando sui dettagli, e sulle ambiguità.
Sulla dimensione del ricordo, che assume anche forme digitali di persistenza della memoria: foto, registrazioni audio, messaggi di testo.
Per il detective Hae-joon la questione non è poliziesca ma sentimentale.
Il nodo da sciogliere non è quello della colpevolezza o meno di Seo-rae, ma quello dei suoi sentimenti. Hae-joon sta essendo usato, o Seo-rae lo ama veramente? E come capirlo? E poi, certo, come gestire l’eventualità dell’amore altrui, e la certezza del proprio, con la verità giudiziaria?
Il modo in cui Decision to Leave intreccia questi due piani è altrettanto complesso ma riuscito di quello con cui mescola all’interno del suo racconto i generi e gli stili, e la tensione melodrammatica supera quella tra classicità e modernismo della messa in scena.
E il modo in cui Park conquista il suo spettatore è vertiginoso come certi strapiombi, ma anche dolce, progressivo e inesorabile come l’alzarsi della marea.
Coinvolgente e perfino commovente nella sua composta ma straziante malinconia.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival