Deadpool: la recensione del cinecomic politicamente scorretto

17 febbraio 2016
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Deadpool: la recensione del cinecomic politicamente scorretto

Wade (Ryan Reynolds), ex agente delle Forze Speciali, si barcamena come mercenario, risolvendo torti per pochi dollari. L'idillio passionale con la prostituta Vanessa (Morena Baccarin) s'interrompe quando scopre di essere malato di cancro e accetta la cura offerta dal misterioso dottore Ajax (Ed Skrein): risvegliare in lui i geni mutanti. Come effetto collaterale, Wade si ritrova sfigurato e decide di vendicarsi di Ajax, dopo essersi ribattezzato Deadpool. Questo mentre due X-Men, Colossus e Testata Mutante Negasonica, cercano di farlo ragionare.

Deadpool è già passato alla storia come film vietato ai minori più visto in America nel primo weekend: non è solo una curiosità, è uno degli aspetti da valutare nel lavoro dell'esordiente Tim Miller, già responsabile dello studio di effetti visivi Blur. Deadpool usa la classificazione "R – Restricted" (vietato ai minori di 17 anni, ma non in Italia) per fedeltà al fumetto originale di Rob Liefeld e Fabian Nicieza creato nel 1991. Non se ne ottiene tuttavia più realismo, più drammaticità o più maturità. La buona fede di Reynolds, che da appassionato e producer ha creduto nel progetto per oltre dieci anni, non snaturando il materiale originale produce un oggetto gradito ai fan ma quantomai strano per tutti gli altri. La classificazione fornisce di identità un lungometraggio che altrimenti per trama cadrebbe nel dimenticatoio alla velocità della luce, risultando al massimo un clone di un qualsiasi Wolverine. Deadpool mitraglia il pubblico e i personaggi di volgarità gratuite, compie stragi ridendosela, sfotte la sua coinquilina nera, vecchia e pure cieca, si masturba gaiamente e fa sesso creativo con la sua metà. Più che una conquista espressiva, la scorrettezza di Deadpool nel contesto omologato dei cinecomic sembra un urlo di disperazione cacciato dall'interno della gabbia di una formula cinematografica in via di saturazione.

Si parlava di due aspetti: il secondo è la rottura della quarta parete. Ci riferiamo a quei momenti in cui Deadpool si rivolge al pubblico, introduce flashback, commenta il film stesso o la produzione (da antologia i liberatori titoli di testa). Questa dimensione metalinguistica in realtà non è mai mancata nei fumetti Marvel, specialmente in quelli degli anni Sessanta a firma Stan Lee, però qui viene amplificata dalla scorrettezza disperata di cui sopra. Quando Colossus propone a Deadpool di parlare col professor Xavier, l'antieroe risponde: "Ma Stewart o McAvoy? No, perché con queste linee temporali non ci si capisce più nulla!" La complicità del protagonista col pubblico di appassionati, fan, nerd o occasionali visitatori di ComiCon / Romics ha superato il livello di guardia, decomponendo la tenuta drammatica con un tilt completo tra narrazione e messa in scena, dove persino Ryan Reynolds prende in giro se stesso. In stoica identificazione col suo eroe, che per vocazione però è appunto irriverente: i fumetti sopravvivono a impatti di questo tipo, ma che ne sarà di un genere cinematografico diretto nella stragrande maggioranza dei casi a un pubblico generalista?

Immaginando quindi le implicazioni di scorretezza e rottura della quarta parete, che di per sè rendono pure Deadpool un film divertente, è difficile non nascondere un timore: se fare i ragazzacci senza freni e trasformare il cinecomic in una parodia di se stesso paga così tanto al botteghino, siamo arrivati al punto di non ritorno? Il fenomeno cinecomic comincia ad implodere?



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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