Cure, la recensione: un punto a capo, una svolta, un nuovo inizio nella storia dell'horror
Il capolavoro horror di Kiyoshi Kurosawa, punto d'origine del J-horror e di tanto altro cinema contemporaneo, arriva per la prima volta al cinema in versione restaurata e in 4K. La recensione di Cure di Federico Gironi.
È il 1997, e dal Giappone arriva un film che cambia tutto, almeno per l’horror. Un film che è un punto a capo, una svolta, un nuovo inizio. Di Kurosawa prima c’era solo Akira, poi, con Cure, è arrivato anche Kiyoshi. Cambia tutto Cure, perché detta nuove linee lungo le quali svolgere i filati della paura, sia dal punto di vista dei contenuti, che da quello della forma.
Siamo a Tokyo, ci sono una serie di morti misteriose, brutali, con evidenti analogie ma colpevoli differenti, che non sanno spiegare il perché degli omicidi che hanno commesso. C’è un detective provato dalla vita (sua moglie ha problemi mentali) che sbatte la testa contro i muri durante le indagini. E c’è poi un misterioso ragazzo, uno che sembra legato a tutti gli omicidi, una sorta di muto ispiratore di quelle azioni brutali. Cos’è? Ipnosi? Magia? Qualcosa di diverso?
Il male esiste e il male è contagioso. Questo il primo punto di partenza teorico di Kurosawa, che per Cure magari ha preso spunto da qualcosa di hollywoodiano, sicuramente dal Silenzio degli innocenti, ma che poi ha ruminato e digerito e elaborato in maniera tutta sua. Il male esiste, è contagioso, e la sua messa in opera è semplice, diretta, perfino banale. Per questo ancora più agghiacciante. Non ci sono motivi, non ci sono moventi, non ci sono piani elaborati e diabolici.
Cure va dritto per la sua strada, mescola un po’ di carte in tavola per aumentare lo smarrimento e confusione, allude magari, ma si rifiuta di fornire spiegazioni chiare e dirette, mettendo in luce la loro totale inutilità, se non come puro abbellimento - si fa per dire - narrativo e cinematografico.
Qui, in particolare, questo contenuto ambiguo e lampante assieme si lega alla forma. Perché Cure è tanto un film geometrico e cartesiano, elegante e chirurgico nei piani sequenza come nel montaggio, quanto uno che, quando sa e quando vuole lui, spiazza e confonde. La paura, nelle immagini di Cure, è legata al vuoto, al quotidiano, agli oggetti comuni agli spazi liminali delle nostre città e delle nostre case, alla sua apparente assenza e alla sua inquietante immanenza.I tunnel, i ponti, le strade messe sullo schermo da Kurosawa sono deserte e cariche di tensione, una tensione (e una solitudine profonda) nella quale annegano i pochi personaggi e anche noialtri spettatori.
Il controllo di Kurosawa sulle immagini - e sui suoni, occhio ai suoni - del suo film è quasi sovrannaturale, e quando poi gioca con le ellissi, col montaggio, con le evocazioni visuali spiazzanti e misteriose (quella scimmia morta con braccia e gambe intrecciate legata a una vasca da bagno; un casolare abbandonato in campagna; una lavatrice che gira a vuoto; un accendino; un bus che si muove tra le nuvole) il confine tra realtà e illusione è abbattuto, ogni certezza abbandonata.
La concretezza di Cure sta tutta nella tensione costante ad astrarre tutto, nel minimalismo che si riempie di fantasmi. Il genio di Kurosawa sta nel farci perdere non dentro labirinti esoterici, truculenti o misteriosi, ma nell’apparente ordine e nella logica che tale non è di ciò che conosciamo meglio: le nostre case, le nostre città, le nostre famiglie.
E quindi, la questione è identitaria, e non solo per quella domanda che ricorre, all’inizio apparentemente senza motivo, nelle parole dell’ispiratore degli omicidi, “chi sei tu?”. Chi siamo noi, davvero, spogliati degli appigli sociali, delle maschere, di una realtà che abbiamo capito essere solo apparenza? E chi è l’altro, cosa è il reale? Una X. Un’incognita. Il tutto. O forse il nulla.
L’unica cosa certa è che, cercando di scoprire la verità, non ci aspetta nulla di buono.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival