Cloud, la recensione: Kiyoshi Kurosawa nella nuvola senz'etica del presente
Non solo spietata ricognizione delle dinamiche del capitalismo digitale, ma dolente quanto avvincente presa di consapevolezza della condizione dell'uomo moderno. La recensione di Cloud di Federico Gironi.
C’è dell’elettricità, della tensione, del mistero fin da subito, in Cloud. Non tanto per quello che succede, quanto per quel che pensiamo possa nascondersi dietro la freddezza apparentemente imperturbabile del protagonista, Ryosuke Yoshii. Uno che, in piccolo, piccolissimo, esprime da subito la natura spietata del neocapitalismo digitale: compra a poco sfruttando le difficoltà delle persone, rivende a tanto online, si lascia alle spalle il lavoro novecentesco che inizialmente affianca alla sua attività di rivenditore su internet.
Kiyoshi Kurosawa, poi, gioca al rialzo quando inizia, come lui sa fare, a seminare altri sassolini d’instabilità, spiazzamento e mistero dentro al suo film: un topo morto su una scala, un cavo d’acciaio teso lungo una via, figure senza volto che bussano alla porta. L’evasione di Yoshii dalla città, l’eremo in mezzo ai boschi e in riva a un lago, non semplificano poi le cose: perché se Kurosawa è maestro nell’astrazione urbana, le sue abilità rimangono intatte anche in altri ambienti, e perché poi ci si inizia a chiedere chi sia davvero quel nuovo aiutante così zelante di Yoshii, e cosa stia accadendo all’improvviso alla sua reputazione online.
Arrivati a questo punto, conoscendo il suo autore, Cloud potrebbe facilmente trasformarsi da tecno-thriller in un horror liminale dai chiari risvolti metafisici. Invece la svolta che compie è diversa, sorprendente, eppure in qualche modo coerente, come vedremo in un finale che strizza l’occhio a certe scene del capolavoro Cure, con quell’illusione, o quella presunzione di conoscenza.
Con l’irrompere in scena di un gruppo di nemici armati di Yoshii, che lo vogliono catturare, probabilmente uccidere, Cloud di tramuta in una specie di home invasion prima, in western suburbano poi, e infinine in un action-noir post-industriale, dove ogni ambigutà viene espulsa (ma solo in apparenza) e dove alle rarefazioni del mistero di sostituiscono le traiettorie balistiche, affrontate con immutato rigore e costante eleganza stilistica.
È interessante come questo movimento narrativo e estetico vada a fare il paio con quello della vita di Yoshii, uno che cerca appunto la dissoluzione del lavoro fisico a favore di quello digitale, e abbandona la concretezza della città per l’utopia astratta della campagna per poi invece ritrovarsi di fronte, in carne, ossa e armi, le controparti fisiche di quelle che lui considerava pedine dei suoi giochi di denaro online.
Sarebbe facile, e quindi un po’ semplicistico, vedere in tutto questo la vendetta della realtà fisica su quella virtuale, o degli sfruttati contro il capitale. C’è anche quello, certo, ma nel macchinario cinematografico di Kurosawa, che omette spiegazioni e mette spesso la logica da parte: lo conferma il fatto che a aiutare Yoshii a sopravvivere, in quel frangente, riappaia il suo misterioso aiutante, sorta di suo alter ego inquietantemente robotico e del tutto amorale. Ma c’è, anche, altro.
C’è, direi, una visione spietata e ultra pessimista dell’essere umano tout court (quelli che vogliono torturare e uccidere Yoshii non si dimostrano affatto migliori di lui), incapace di trovare soluzioni costruttive allo scacco del presente, alla solitudine esistenziale, alla brama di possesso, alla virtualizzazione dei rapporti, alle dinamiche schiaccianti del capitalismo digitale. Perso in una nuvola di dati, sogni, numeri, ambizioni, che ha virtualizzato tutto, compresa l’idea di violenza in ogni sua forma, e che ha dissolto ogni concezione etica.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival