Cloud Atlas - la recensione del film di Tom Tykwer e di Lana e Andy Wachowski

09 gennaio 2013
3.5 di 5
6

Un coraggioso adattamento diretto da Tom Tykwer e Lana e Andy Wachowski.

Cloud Atlas - la recensione del film di Tom Tykwer e di Lana e Andy Wachowski

Una vita non basta, almeno lo devono pensare i Wachowski, che hanno pensato di adattare (insieme all’amico Tom Tykwer) un romanzo di successo, ma per tutti inadattabile, come "Cloud Atlas" di David Mitchell. Un complesso intreccio di sei storie nel corso di cinque secoli che vuole essere “semplicemente” una storia dell’animo umano, affrontandone pressoché ogni aspetto, affidandosi agli stessi protagonisti che riappaiono diversamente conciati e truccati, senza fermarsi di fronte a differenze di razza, sesso e buon senso. Ogni azione ha una conseguenza, ognuno è legato all’altro, gli errori o le buone azioni provocano effetti a volte limitati, talvolta così dirompenti da scatenare rivoluzioni. Le anime rinascono e si evolvono mantenendo una memoria del vissuto precedente, lasciando agli uomini la libertà di imparare o meno dai propri errori. Più che la razionalità pedagogica ai registi interessa l’istinto e la spiritualità, rappresentata come molteplice declinazione dell’amore, che nonostante tutto sopravvive ai secoli.
Difficile classificare un film come questo, che vuole proprio evitare ogni classificazione, cercando di rappresentare la vita come tessuto collettivo, in fondo “cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?”.

Non è difficile riconoscere la diversa mano (e gli attori feticcio) di Tykwer o dei Wachowski nelle sei storie, che si sono divisi, tre a testa, così come tematiche e stile di due gruppi di lavoro così diversi. Nell’episodio ambientato nel XXII secolo non mancano rimandi estetici e tematici a Matrix, così come Hugo Weaving cattivo in nero e un Jim Sturgess truccato alla Keanu Reeves. Proprio il trucco, oggettivamente al limite del ridicolo, è uno degli elementi che dimostrano l’incoscienza dell’operazione, che con sprezzo assoluto del pericolo oscilla fra melodramma, commedia demenziale, film di fantascienza, dramma in costume, spionaggio paranoico anni ’70, avventura e molto altro ancora.

Nei secoli in cui si sviluppa Cloud Atlas i personaggi si ripresentano senza preclusioni di razza o sesso, a connotarli è piuttosto il grado di “illuminazione”, di avanzamento nel percorso spirituale, rappresentato un po’ didascalicamente con una voglia sulla pelle a forma di cometa. L’unica persona esistita esplicitamente citata è Alexander Solgenitsin: dissidente imprigionato da un regime dittatoriale comunista da una parte, ma anche terrorizzato dall’agnosticismo e dall’assenza di spiritualità che a suo avviso regnava in Occidente.

Di notevole interesse è la partitura musicale, fondamentale per la storia, scritta fra gli altri dallo stesso Tykwer, oltre alle scenografie e al lavoro sulla lingua, o meglio sulle sue variazioni nei secoli. L’ambizione era di realizzare un film sulla vita stessa, sulle domande più semplici che tutti ci poniamo, dal senso dell’esistenza, al potere dell’amore, al senso della morte. Fra analisi filosofiche elementari, spiritualità futuristiche, nuove religioni e darwinismo spietato Cloud Atlas è un oggetto misterioso, che non indietreggia di fronte a niente, che prende ogni rischio possibile. Ambizioso, ma non presuntuoso, vuole piuttosto accantonare il cinismo per ripartire da capo. Come molte delle storie parlano di nuovi inizi, di chi vuole cancellare gli errori del passato, Cloud Atlas vuole partire da zero, da una donna del futuro privata dell’anima, per porsi tante domande. Il risultato è una sinfonia anche sgraziata, ma emozionante, che ha il pregio di non annoiare nonostante sia vicina alle tre ore di durata e di azzeccare l’equilibrio fra epica spettacolare e dimensione intima e umana dei personaggi. Un film che si ama o si odia, un atto d’amore che per essere apprezzato in pieno pretende il colpo di fulmine.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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