Chi m'ha visto: recensione della commedia con Pierfrancesco Favino e Beppe Fiorello

27 settembre 2017
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I due attori formano un'ottima coppia in un film che parla della smania di apparire e di una finta sparizione che diventa un fenomeno mediatico.

Chi m'ha visto: recensione della commedia con Pierfrancesco Favino e Beppe Fiorello

Prima ancora di ammirarne la bravura in film d’autore come Romanzo Criminale, L’uomo che ama, Saturno contro, Suburra, eccetera - e prima di vederlo perfettamente a proprio agio in produzioni hollywoodiane - abbiamo riconosciuto in Pierfrancesco Favino il dono di padroneggiare ogni singolo accento italiano, sia in film buffi che in storie drammatiche, a cominciare da quel El Alamein nel quale, nei panni del Sergente Rizzo, sfoderava un ottimo veneto.

Di questo mimetismo linguistico, e di una vis comica dimostrata in Moglie e marito, dev'essersi sicuramente accorto Alessandro Pondi, che non ha affidato all'attore una sophisticated comedy o una simil commedia all’italiana attraversata da cinismo e/o malinconia, ma una sapida macchietta, o - se vogliamo - una maschera. 

Ora, nelle mani di un regista che sembra volerlo "spremere" fino in fondo per dare dignità a un’opera che non va al di là del bozzetto made in Sud con personaggi archetipici e una sceneggiatura debole, Favino dà il massimo, e c’è da tenersi la pancia dalle risate a sentirlo esprimersi come uno dei protagonisti de Lacapagira, ma Chi m'ha visto è il genere di film a cui mai e poi mai l’avremmo accostato, anche se è da ammirare la sua voglia di non prendersi troppo sul serio e di cambiare aria facendo il perdigiorno volgarotto, virile e indolente che oscilla fra una proverbiale furbizia nostrana e una tenera ingenuità.

Comunque sia Favino cowboy pugliese che guida l’ape e asseconda l’inganno dell’amico chitarrista che fa finta di sparire per diventare famoso questa storia strampalata in qualche modo la salva, formando con Giuseppe Fiorello una coppia che funziona, che si passa bene la palla, che si compensa, che si scambia più di una battuta spassosa. Avremmo preferito che si prendesse tutta la ribalta, invece di essere affiancata dalla bonazza di turno, che tra l'altro fa la prostituta perché non ha trovato un altro lavoro e che, guarda caso, viene dalla Spagna. Ma tant'è: la sua presenza serve per spiegare un cambio di rotta. 

E però, fra Peppino e Martino (il musicista incompreso di Fiorello piccolo), laddove la penna di Pondi, Paolo Logli e dello stesso Beppe ha lavorato con più cura è stato nella costruzione del secondo, ragazzo di talento rimasto nell'anonimato perché normale e poco incline a sgomitare. E’ lui il simbolo di quella timida schiera di persone di valore che soffrono per l’assenza di meritocrazia, e questo simbolo, soprattutto nella seconda metà del racconto, arriva laddove Favino non riesce a spingersi con il suo teatrino: arriva a far riflettere sul nostro brutto mondo, dove l'apparire è più importante dell'essere e, come ci insegnava Nanni Moretti in Ecce bombo, magari si viene notati di più se si resta a casa.

Quanto all'idea un po' pirandelliana e un po' ispirata a fatti di cronaca di inscenare la propria scomparsa per trarne vantaggio, certo non suona come nuova, ma ogni volta che viene sfruttata in un'opera di finzione, chissà perché stimola la curiosità. Pondi la cavalca, ma troppo, reiterando situazioni e facendo succedere ciò che tutti ci aspettiamo che succeda e chiudendo la vicenda esattamente come è giusto che si chiuda. Per fortuna, nello scontato fluire degli eventi, inaspettatamente capita che Chi m'ha visto si fermi, e allora nelle pause fra un siparietto e l'altro si insinua un pizzico di poesia, con Fiorello che suona immaginando un pubblico o la madre di Martino che si commuove davanti alla televisione. Già, la televisione, arnese infernale che ci tiranneggia e continua ad attrarci come falene. Il film, giustamente, ce ne ricorda la pericolosità.

Infine, non dispiace in Chi m'ha visto l'unità di luogo. Ma, tanto per fare un paragone, il paese di quattro anime nel quale la storia si svolge non è antropologicamente interessante né a fuoco come le ambientazioni dei film di Ficarra e Picone, che, fra l'altro, siciliani lo sono per davvero e non per finta. Le loro commedie sono più radicate nella realtà pur utilizzando i modi della favola e divertono di più perchè traggono linfa vitale dalla comicità fisica di un duetto ultra-consolidato. Favino e Fiorello sono alla loro prima volta insieme, e se avessero fatto il primo il romano e il secondo il siciliano, e se fossero stati lasciati più liberi (o se qualcuno li avesse addomesticati a una storia forte), sicuramente sarebbero andati meglio. Potrebbero sempre provare, va da sé, però, che due attori, per quanto dotati, da soli non fanno un film.



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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