Cento domeniche: recensione del film di e con Antonio Albanese

25 ottobre 2023
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Con Cento domeniche Antonio Albanese racconta il mondo operaio e individui che hanno perso tutto dopo il crack di una banca. Lo fa attraverso la vicenda di un uomo felice e onesto che si sente mancare la terra sotto i piedi. La recensione di Carola Proto.

Cento domeniche: recensione del film di e con Antonio Albanese

È un film "politico" Cento domeniche? Certo che lo è, dal momento che difende i diritti calpestati di onesti lavoratori e descrive quindi una realtà sociale. È un film necessario Cento domeniche? Indubbiamente sì, perché Antonio Albanese lo ha dedicato a chi non ha fatto in tempo a ritirare dalla banca i risparmi di una vita prima di un crac finanziario e, dopo aver cambiato le obbligazioni in azioni, ha preso l'ascensore per l’Inferno perdendo tutto.

Anche ad Antonio, protagonista della nuova regia dell'attore e comico, è toccata questa disgraziata sorte in virtù di un paio di firme sopra due X, e anche se è il più grande tornitore di un'azienda che dà lavoro a diverse persone, l'uomo ha accettato di buon grado un prepensionamento e un orto da zappare e, oltre a occuparsi quasi a tempo pieno di un'anziana madre non sempre lucida e sorda come una campana, saltuariamente frequenta una donna sposata di cui un po’ si è innamorato. Antonio, soprattutto, è un uomo felice: non pretende la Luna e vive di rapporti umani e di affetti. Forse si annoia un po’, ma è un campione di tornei di bocce e un uomo intelligente, che però, invece di mettere subito sotto a una mattonella il suo piccolo capitale, si illude che l’essere umano sia naturalmente buono e decide di fidarsi del direttore della banca che gli dice. “Andrà tutto a posto".

Antonio è anche un padre premuroso, che vuole sostenere per intero le spese del matrimonio della figlia, e più di ogni altra cosa un operaio. E però, nel mondo di oggi nessuno pensa agli operai e qualcuno continua imperterrito a chiamarli "Gli ultimi". "Ma quali ultimi?" - dice Albanese. Poco tutelati e sempre onesti, dovrebbero essere considerati i primi, perché sempre lo sono stati, ma poi qualcuno di molto stupido ha pensato che non fossero abbastanza e li ha ritenuti "sacrificabili", togliendo loro il diritto di trascorrere una vecchiaia tranquilla. Ad andare in scena, dunque, nel film certamente più bello di Antonio Albanese, che viene proprio da una famiglia di operai, è la cronaca di un’ingiustizia, di una crudele sopraffazione, degli effetti devastanti della malvagità umana.

In Cento domeniche Antonio Albanese lascia da parte la maschera, il personaggio. Non si trasforma in Cetto La Qualunque né in Alex Drastico, Epifanio o Ivo Perego. Gli interessa piuttosto interpretare un uomo comune, un John Doe dei nostri giorni contento aver messo su famiglia e di essersi comportato da cittadino modello. Mai come in questa occasione, in cui la commedia occupa solo la prima metà del film, Albanese è sincero e autentico, tanto che sente questo film come la sua opera più personale. E i cattivi di questo racconto, che riunisce tante storie narrate da chi è diventato improvvisamente povero, non sono soltanto i direttori di banca o i pochi che si sono "salvati", ma uno stato che si occupa troppo poco della salvaguardia dei diritti dei cittadini i e dei lavoratori, oltre a un Job’s Act che tutela le aziende ma non i singoli impiegati.

In un simile dispiegamento di ipocrisie, ricatti morali e frasi a mezza bocca, Antonio si trova a nuotare nelle acque limacciose dell’inganno e dell’insulto alla sua dignità di lavoratore, e Albanese sa, e ci mostra in maniera ora garbata e ora spietata, che un lavoratore o ex lavoratore privato della sua dignità altro non è se non un involucro vuoto e fragile, il simulacro di un essere umano costretto a saltare nel cerchio di fuoco dell’ansia, dell’insonnia e della depressione più nera, che ci inchioda al letto o al divano di casa.

Ciò che annichilisce, in un film essenziale e stringato, è la tenerezza del protagonista, che non sogna di scalare l'Everest ma vuole soltanto rendere felice la sua "bambina" e godersi qualche raggio di sole all’aperto e un buon bicchiere di Millesimato. Per questo la depressione che lo attende dietro l’angolo è direttamente proporzionale alla sua onestà e trasparenza. Antonio non ha mai preso un ansiolitico né un sonnifero, ed è d’accordo con chi una volta ha detto: "Il lavoro nobilita l’uomo". Ecco perché il tiro mancino della sua banca e un necessario addio all’azienda lo disarcionano, lo confondono e gli tolgono il sonno, ed è una vergogna che lo fa vergognare.

Antonio non avrà letto molti libri, ma sa cos’è il rispetto, e capisce che nessuno si è preoccupato di averne almeno un po’ nei suoi confronti. Albanese qui non la tira per le lunghe e ci mostra che il suo everyman non accetta di essere un peso per i suoi cari e così si isola, e quando lo fa, Antonio Albanese si abbandona completamente al personaggio, esprimendo una frustrazione di cui forse avrà avuto un assaggio in gioventù. Come attore, avrà probabilmente fatto ciò che insegnava il buon Konstantin Sergeevič Stanislavskij, mentre come regista ha scelto uno stile rigoroso e semplice, ma non per questo poco incisivo. Il suo imperativo categorico, lo sappiamo, è stato: raccontiamo solo la verità, anche se fa male. Non siamo tanto distanti dal cinema di Ken Loach, anche perché in Cento domeniche nessuna risata ci seppellirà, e quindi nemmeno il cabaret e la comicità fisica di un artista che ci fa ridere come pochi con i suoi memorabili personaggi. È come se Albanese avesse detto: “Adesso non c'è proprio niente da ridere”, riponendo grande fiducia nella sua arte, che, come già detto, recupera la funzione sociale che per decenni l’ha contraddistinta.

Si dice che nei momenti difficili, o nei cosiddetti tempi bui, a spianare la strada che porta alla resilienza siano libri, quadri, pièce teatrali e film, e infatti Cento domeniche, più che insegnarci a non fare investimenti insensati, ci invita a chiedere aiuto agli amici e ai familiari in situazioni di emergenza, perché a stare senza gli altri si impazzisce e si perde una visione critica della realtà.

Nonostante siano passati solo 5 anni da Contromano, Albanese regista è cresciuto tanto, e ha avuto il coraggio di uscire dalla sua comfort zone perché desiderava fortemente rendere giustizia a chi ha avuto lo stesso destino di Antonio. Ci piace molto questa versione dell’attore, senza nulla togliere alla sua strepitosa vis comica. In un’epoca di smarrimento generale, gli intellettuali sono individui preziosi, non dobbiamo dimenticarlo. Sono loro che possono sensibilizzare le persone e instillare, in chi crede di avere certezze granitiche, il dubbio. E poi Antonio Albanese è figlio di un siciliano emigrato in Lombardia che non ha mai dimenticato le proprie origini. Sono queste a rendere il regista umile, generoso e pronto a gridare: "Non ci sto!". Sarebbe bello se, grazie a Cento domeniche, lo facessero in tanti. La buona notizia è che già esiste, a circa 4 settimane dall’uscita in sala, il  tormentone del film, che è "Finiremo tutti in fondo a un fondo".



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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