C'è tempo: recensione della commedia on the road d'esordio di Walter Veltroni
Opera prima di finzione per l'ex politico con Stefano Fresi mattatore.
Alle prese con l’opera prima, un regista è bene che racconti una storia a lui molto vicina, che conosca da vicino e faccia parte della sua vita: prima regola del giovane autore, o almeno della vulgata. Non stupisce se Walter Veltroni, però, dopo alcuni documentari paradossalmente più personali, per il battesimo nella finzione abbia deciso di raccontare le sue due grandi passioni: quella per il cinema e per le storie edificanti all’insegna dei buoni sentimenti. Quindi, più che raccontare se stesso, ha voluto rappresentarsi attraverso il filtro del cinema, la mediazione di quella luce - parola d’ordine e ossessione del film - che ha illuminato i tanti film della storia del nostro cinema che ha voluto omaggiare.
C’è tempo, viaggio nelle strade blu della settima arte, è cristallizzato nell’epoca d’oro del nostro cinema, a qualche decennio di distanza, riproponendone ingenuità e buoni sentimenti senza apporre il filtro del tempo o di una rielaborazione personale, facendo in questo modo perdere carica emotiva, come se fra l’anima del film e noi spettatori ci fosse sempre una comunicazione indiretta.
In questa apologia dei ritmi dilatati e ragionevoli della provincia, dialoghiamo con i protagonisti di Novecento di Bertolucci, con Scola, Fellini, Truffaut e tanti altri. Perfino i luoghi visitati hanno sempre una rilevanza cinefila, fino all’apparizione in carne e ossa dell’idolo del piccolo ma iper cinefilo tredicenne Giovanni, Jean-Pierre Léaud.
In questo viaggio nello spazio, e come abbiamo visto nel tempo, Veltroni ci presenta due compagni di viaggio che si sono appena conosciuti, pur essendo fratelli, e dalla grande differenza d’età. Stefano (Stefano Fresi, ancora un omaggio, l'uso del nome proprio dell’attore che rimane al personaggio) e Giovanni (Fuoco) si guardano prima con diffidenza, con il prevedibile capovolgimento dei ruoli che ci presenta il ragazzino più maturo del cresciuto burbero e confusionario osservatore di arcobaleni. Sì, è proprio questo il poetico lavoro che impegna il nostro, insieme alla gestione di uno specchio in cima a una montagna, che porta luce d’inverno a un piccolo borgo del centro Italia, che altrimenti sarebbe al buio per molte ore al giorno. Come avete capito le metafore sono esplicitate senza pudore, la luce irrompe a ogni incontro o svolta narrativa di questo viaggio, che propone l’avvicinamento attrraverso la semplice voglia di ascoltarsi e conoscersi di due persone così diverse, che vengono da due mondi diversi. I buoni sentimenti, insomma, di cui si accennava prima, e che Veltroni ritiene di questi tempi "rivoluzionari".
La coppia di fratelli, va detto, funziona, grazie a uno Stefano Fresi mattatore senza mai esagerare, generoso nei confronti del piccolo Giovanni Fuoco, la cui serietà da scolaretto modello lascia filtrare le ansie di un’anima cresciuta nella solitudine e con grande bisogno di un abbraccio. Giovanni non ci piace perché è un sapientone, ma perché vediamo da subito come la sua sia una costruzione difensiva, in una piccola storia semplice e di un candore ingenuo; peccato, però, che l’amore per il cinema di Veltroni venga invece spiattellato con un nozionismo da quiz. Luminosa la presenza di Simona Molinari, cantante jazz prestata al cinema, con la funzione di musa erotica, ma sempre senza esagerare.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito