Biutiful - recensione del film di Alejandro González Iñárritu
Piaccia o (soprattutto) non piaccia, Alejandro González Iñárritu è un autore. Questo è oramai innegabile. Perché avrà anche divorziato dallo sceneggiatore dei suoi tre film precedenti, Guillermo Arriaga, e avrà anche girato per la prima volta in Spagna ed in spagnolo, sua lingua madre. Ma l'arroganza con cui ostenta le sue capacità tec...
Biutiful, il film di Alejandro González Iñárritu in concorso
Piaccia o (soprattutto) non piaccia, Alejandro González Iñárritu è un autore. Questo è oramai innegabile. Perché avrà anche divorziato dallo sceneggiatore dei suoi tre film precedenti, Guillermo Arriaga, e avrà anche girato per la prima volta in Spagna ed in spagnolo, sua lingua madre. Ma l'arroganza con cui ostenta le sue capacità tecniche e soprattutto la riproposizione di un cinema del dolore fasullo e ricattatorio sono rimaste invariate.
Biutiful è una nuova proposizione di una catena pressoché ininterrotta di disgrazie, questa volta calate nello squallido contesto dei quartieri più degradati di Barcellona, dove vive e "lavora" Uxbal: sensitivo in grado di parlare con i morti; empatico gestore delle attività (clandestine ma legali) di gruppi di immigrati africani e cinesi che se la passano malissimo e che finiranno peggio; ex moglie bipolare e alcolizzata che lo tradisce col fratello; due figli sul groppone; malato terminale di un cancro alla prostata.
Senza Arriga, Iñárritu si scrive il suo film da solo, rinunciando alla struttura a incastri ma non negandosi una pretestuosa e narrativamente inutile circolarità suggerita da un prologo ad effetto ripreso nel finale, ma soprattutto dimostrando che la sua mano è più pesante di quella del collega. È come se il compiaciuto e di certo non lieve né discreto modo di girare del messicano avesse avuto una traduzione diretta nel trattamento di sentimenti e psicologie, senza nemmeno avere dalla propria la perizia che nel primo caso è comunque palese.
L'incedere di Biutiful è pesante e spietato, nonostante l’anelito spirituale delle vicede: non si lavora di fioretto ma si brandisce una mannaia, non si sussurra ma si proclama a gran voce. E c'è dell’inquietante nella programmaticità con cui si persegue la descrizione e la stimolazione del dolore, legato alle vicende di un uomo perseguitato da fantasmi e sensi di colpa e alla ricerca di un egoistica autoassoluzione.
In questo quadro, un Javier Bardem dalla consueta gran presenza fisica e (lui sì) sincero nel tentativo di ritrarre condizioni tanto estreme e disagiate, appare quasi sprecato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival