Assassinio sull'Orient Express: recensione dell'adattamento di Kenneth Branagh del classico di Agatha Christie

28 novembre 2017
2.5 di 5
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Un'avventura per Hercule Poirot.

Assassinio sull'Orient Express: recensione dell'adattamento di Kenneth Branagh del classico di Agatha Christie

Fra Shakespeare a Agatha Christie c’è una bella distanza, in quanto a spessore artistico, anche se sono gli autori più venduti di sempre, Bibbia esclusa. In fondo però meno di quanto sembri, visto che il bardo per la sua epoca era un intrattenitore da grande pubblico, sempre considerando il numero assoluto di potenziali spettatori. Nei secoli è diventato un classico per un’élite intellettuale, mentre Agatha Christie è stata subito la lettura popolare da stazione, come tutto il giallo, relegato per decenni sugli scaffali più polverosi della letteratura. Kenneth Branagh si è confrontato spesso con il grande drammaturgo, sia sul palco che al cinema, mentre ora arriva, non casualmente passando per qualche blockbuster da grande pubblico come Thor e Jack Ryan, a confrontarsi con la regina del mistero classico inglese, appunto Dame Agatha Miller, che mantenne il cognome del primo marito, Archibald Christie, da cui divorzio a metà degli anni ’20.

Proprio dopo questo evento traumatico, la scrittrice viaggiò in treno verso Baghdad, traendo ispirazione per la vicenda raccontata in uno dei suoi libri più amati, Assassinio sull'Orient Express, scritto nella stanza 411 del mitico Hotel Pera Palace di Istanbul, che ispirò l’unico vero gioiello cinematografico tratto dalle sue opere, quello diretto nel 1974 dal Sidney Lumet. In quel lavoro corale, pieno di attori straordinari come Lauren Bacall, Ingrid Bergman, Sean Connery e Anthony Perkins, l’investigatore simbolo della Christie, il belga baffuto Hercule Poirot, era interpretato da Albert Finney, abile a mettersi al servizio di una storia (specie all’epoca) originale e coraggiosa, oltre al cast di cui sopra.

In questo nuovo adattamento Branagh non si accontenta di dirigere, ma ha voluto indossare anche i baffoni di Poirot, con la stessa pulsione narcisistica con cui ha affrontato in passato ruoli come quelli di Amleto. Questa è il primo, e più importante, slittamento rispetto all’originale (libro, oltre che film): è Poirot il vero protagonista, non solo per la soluzione finale in cui dimostra di mettere a frutto le sue straordinarie cellule grigie, ma fin dalla prima inquadratura, in un prologo pasticciato in cui si mette in chiaro fin da subito chi sia la star. Peccato, perché il buon Hercule è sempre stato, pur vanesio ed eccentrico, molto abile a mimetizzarsi, a farsi sottovalutare per le sue forme poco atletiche e il suo accento marcato.

Sembra evidente fin da subito la paura del regista britannico di rinchiudersi in una situazione definibile ‘troppo teatrale’, tanto che non manca occasione per 'perdere tempo', prima durante e dopo, per uscire dal treno, con tanto di scenari innevati e tramonti arancioni dopati al computer. Si vede fin troppo il panorama fuori dal finestrino, e paradossalmente perde per strada in questo modo l’ingrediente più sapido della storia: il senso di claustrofobia, eppure di fascino atavico, di un treno in corsa. Ammiriamo pure piani sequenza e movimenti di macchina da fuori a dentro, e viceversa, ma avremmo voluto meglio raccontato il passare monotono delle ore, e soprattutto il ritrovamento di primo mattino del cadavere di uno dei passeggeri, che dà il via all’indagine.

Cercando di ricostruire un cast all star sono della partita Judi Dench, Johnny Depp, Michelle Pfeiffer (la più convincente), Penelope Cruz, Willem Dafoe e molti altri, rimanendo però sempre sullo sfondo, poco valorizzati anche in alcuni flashback francamente non degni del valore registico di Branagh, che dalla sua azzecca la messa in scena del disvelamento finale di Poirot agli indiziati (momento chiave dell’opera christiana): in una galleria, disposti come per l’Ultima cena, mentre il treno è bloccato da una slavina. Una bella trovata di regia, seguita da un piano sequenza lungo tutto il treno, che dimostra come forse le priorità erano troppo legate alla forma - e al suo baffuto protagonista - rispetto alla valorizzazione di una storia sempre appassionante, come dimostra tuttora il film di Lumet.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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