Angel Face: recensione del film con Marion Cotillard
Una storia di infanzia rubata che punta sull'indignazione più che sull'empatia, con uno stile ricercato e una protagonista sopra le righe.
La riviera francese, un piccolo appartamento disordinato in una via rumorosa come le strade che i fratelli Dardenne filmano in presa diretta, e una famiglia disfunzionale composta da una madre scapestrata e da una figlia intelligente quasi quanto Einstein ma destinata a bruciare in fretta come una candela accesa dai due lati.
No, non siamo in un remake francese di Un sogno chiamato Florida, che comunque era ambientato in un motel, e analizzare un film paragonandolo a un altro che lo ricorda per tematiche e personaggi è una strada che non andrebbe mai seguita se si desidera essere giusti, ma se qualcuno ha ribattezzato l'opera prima della videoartista, musicista e fotografa Vanessa Filho "The Côte d’Azur Project" è perché è sempre di infanzia rubata che si parla, e di un genitore incapace di adempiere al proprio ruolo, oltre che di una società in cui c'è poca compassione nei confronti degli outcast, dei "poveri nascosti", dei fragili e dei deboli. In Angel Face, tuttavia, la compassione sembra mancare perfino nella regista, che guarda la sua party girl Marlène, se non con disprezzo, con un certo distacco, anche se si incolla alla sua nuca con la macchina da presa o la riprende, di fronte, a distanza ravvicinata, leggendole nei grandi occhi azzurri o indugiando sui suoi capelli biondi prima vaporosi come una nuvola al tramonto e poi appiattiti e guastati da una visibile ricrescita.
La vicinanza fisica al personaggio non è dunque, almeno secondo noi, sinonimo di amore né di pietas. Semplicemente è uno strumento, frutto di uno stile ricercato e un po’ autocompiaciuto, per analizzare (o solo sfiorare) una donna che corre all'impazzata verso l'autodistruzione, un'autodistruzione balorda, inutile, fra sigarette infilate in bocca una dopo l'altra e bicchieri di vino da buttare giù d'un fiato perfino nel giorno delle nozze, in una bella e lunga sequenza d’apertura un po’ alla Rachel sta per sposarsi e un po’ alla Melancholia che rende subito il film promettente. E’ dallo sconveniente comportamento della sposina al suo quinto sì che comincia la discesa agli inferi della ragazza con il french manicure e la biancheria intima di pizzo scadente, un viaggio non cupo, ma colorato di blu cobalto e di rosa come gli occhi e le labbra di mamma e figlia, e punteggiato di stelle e stelline. Nella creazione di questa atmosfera da fiaba andata storta, il lavoro dei costumisti e del direttore della fotografia sono stati mirabili, perché la donna da trasformare in una reginetta non del ballo e non proprio del trash, ma di un kitsch tutto lustrini e paillettes, era Lady Dior, o Madame Edith Piaf, o la Sandra di Due giorni, una notte: in altre parole Marion Cotillard.
La diva francese è sicuramente l’anima di Agel Face, e quando abbandona la scena per far spazio all'Odissea in solitaria della piccola Elli, lascia orfano anche il racconto, però la sua interpretazione è caricaturale, e le sue risate troppo sguaiate, il volume della sua voce troppo alto e le sue reazioni troppo scomposte. In fondo, è nel territorio del realismo che la Filho intende muoversi, quindi perché spingere un’attrice tanto talentuosa all'esagerazione? E' invece nella descrizione delle nefaste conseguenze della mala educatión di Elli che il film, per quanto privo di grande mordente, riesce a farsi ricordare, anche se il personaggio dell’ex tuffatore che la piccola si sceglie come padre sostitutivo è un'occasione mancata, perché quello sguardo triste e quel cuore che si è quasi inceppato meritavano più spazio. Soffermandosi sull'esistenza nomade dell'angioletto che della madre è la replica in miniatura, la regista non ci lascia indifferenti, e senza volerci stupire o manipolare, non ci risparmia nulla, nemmeno il bullismo delle stupide (e bruttine) compagnette di scuola e un inizio di alcolismo precoce, con cocktail e fondi di bicchieri trangugiati di nascosto.
E’ un bel personaggio la bimba impersonata da Ayline Aksoy-Etaix che alle bambole dà un goccetto di whisky anziché del tè servito in leziose tazze in miniatura, e nei suoi scoppi di rabbia si coglie anche l'indignazione del film, che, al contrario del secondo lungometraggio di Sean Baker, non celebra la fanciullezza come il tempo della libera immaginazione e dell'incanto. In Angel Face, l’infanzia è il momento in cui nascono i primi demoni interiori e il luogo dove si combatte una guerra fra fierezza e tenerezza e fra infelicità e speranza, quella speranza che deve continuare a essere l'ultima a morire.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali