A casa tutti bene: la recensione del nuovo film di Gabriele Muccino
Un film mucciniano fino al midollo, ma nel quale il regista riesce a superare alcuni suoi limiti con la forza dei personaggi e della scrittura.
Non sono mai stato un grande fan di Gabriele Muccino. A dirla tutta, non mi è mai piaciuto molto. A essere poi completamente sincero, ho ritenuto L’ultimo bacio uno dei film più irritanti della mia carriera di spettatore (allora, per la fortuna di molti, non facevo ancora il critico).
Questo non per denunciare una pregiudiziale, che non c’è, ma per mettere in chiaro fin da subito che anche in A casa tutti bene - film mucciniano fino al midollo - non è che proprio abbia apprezzato l’isteria nevrotica che è il tratto più caratteristico del cinema del regista. Tanto per fare un esempio, ho trovato molto fastidioso che fin dalle prime battute del film, quando ancora i casini familiari veri devono esplodere, i vari protagonisti - specialmente i personaggi di Stefano Accorsi e di Elena Cucci - debbano parlare come in preda all’ansia, e col fiatone. È anche vero, però, che mai prima d’ora lo stile di Muccino è stato così adatto e funzionale e giusto per raccontare una storia.
Detta in altri termini: l’inquietudine, le urla, l’isterismo, il vorticare della macchina da presa,sono qui non solo forma, ma sostanza. Perché chiunque abbia fatto anche solo una cena con più di sei familiari allo stesso tavolo sa bene quanto sia sottile e fragile il confine che separa la quiete dalle liti figlie di vecchie ruggini o nuove passioni: e quello che accade ai venti e più protagonisti di Muccino, costretti su di un’isola per tempo inusitatamente lungo e imprevedibilmente protratto, è allora più che verosimile. E poi perché solo con quello stile (e forse solo lui), Muccino poteva raccontare anche visivamente una storia realmente corale, e passare con agilità leggiadra da un personaggio all’altro, da una stanza all’altra, da una sottotrama a un’altra.
Certo, alla fine accade che in A casa tutti bene alcuni personaggi finiscano con l’avere maggiore rilevanza di altri, ma anche allora questi personaggi “più uguali degli altri” non schiacciano mai nessuno: Muccino riesce a mantenere un equilibrio non facile, considerati i numeri di cui stiamo parlando, e a caratterizzare in maniera mai piatta (magari a tratti stereotipata sì, ma piatta mai) ognuno di essi.
Sono, quelli di questo film, personaggi cui il regista vuole chiaramente bene, e che racconta assecondandone passioni e idiosincrasie senza ruffianeria, rendendoli tutti verosimili, e tutti utili alla composizione di un disegno generale. Personaggi che sono tessere di un mosaico, frammenti di uno specchio che restituisce alla fine tutte le varie sfaccettature e angolazioni di quello che significhi oggi, in questi tempi così burrascosi e privi di riferimenti certi - fossero pure quelli di certe ipocrisie borghesi che coprivano gli scandali e i tradimenti col velo dell’indifferenza apparente - vivere ed essere famiglia.
Litigano, urlano, piangono, si mettono le mani addosso, i protagonisti di A casa tutti bene, ma più di ogni altra cosa parlano. Spesso tanto, a volte troppo, o male, in alcuni casi pochissimo ma in maniera molto significativa.
Il paradosso è che, in tutto il suo iper-cinetismo, quello di Muccino è un film di parole: un film di sceneggiatura, assai più di quanto non fossero molti suoi precedenti.
E se questa sceneggiatura contribuisce in maniera significativa - perlomeno al pari dei movimenti della macchina da presa - alla navigazione tra voci e storie, a rendere invisibili le cuciture del racconto, ancora più dello stile segna il modo in cui A casa tutti bene riesce a colpire lo spettatore, mettendo in bocca ai personaggi battute e riflessioni che sono figlie della migliore rielaborazione contemporanea della grande tradizione della commedia all’italiana (Scola su tutti), e che fanno quasi perdonare certe banalità retoriche e ingenue, certe uscite da libro di Fabio Volo.
In altre parole, Gabriele Muccino riesce a essere cattivo. Cattivo e acido come non lo era mai stato, o perlomeno non con questa sincerità qui, che è quasi un po’ spiazzante.
A casa tutti bene sarà anche il film dove Stefano Accorsi è l’artista di famiglia che è appena tornato da un viaggio in bici fino alla Terra del fuoco, e che dice cose tipo “Lo sai dove vanno queste? Sull’Isola che non c’è”, indicando alcune barche in secca: ma lo dice mentre sta per portarsi a letto la cugina.
Dove Pierfrancesco Favino - che è un disastro nel gestire il rapporto con una ex moglie tutta rigidina che però dice verità assolute come “È stupida, e gli stupidi sono pericolosi” (che si riferisca a chi ha preso il suo posto è solo un surplus), e con la moglie in carica nevrotica, gelosa e isterica - sostiene che solo i veri romantici fanno più famiglie per poi cercare di buttare la compagna da un dirupo in un momento di rabbia cieca e assoluta.
Dove proprio la moglie insicura e aggressiva (Carolina Crescentini; l'altra, la ex, è Valeria Solarino) dice cose disadorne eppure affilatissime come “Perché non mi scopi più spesso?” in mezzo a lagne pur sentite come “Perché non mi fa sentire amata?” o “Perché non mi dici che mi ami?”.
È il film dove si racconta un personaggio - Riccardino, interpretato benissimo da un Gianmarco Tognazzi che omaggia il papà Ugo di Io la conoscevo bene - che è di quelli che fanno male per come sono disperati e patetici, e per quanto siano sempre e comunque inadatti e inopportuni, ma che alla fine sono i più veri, caldi e memorabili.
Inutile nasconderlo, e nascondercelo: c’è tanta verità in A casa tutti bene, nei suoi personaggi, perfino nelle loro menzogne. C’è verità nelle loro fragilità urlate, nelle loro nevrosi ansimanti, nelle speranze per il domani che tanto lo sanno tutti sono solo illusorie, o forse anche no: perché "Le vite normali non esistono".
È un film sincero, quello di Muccino, che non vuole essere etichettato come generazionale ma che racconta come a settant’anni si viva bene e sereni, a sedici si è decisi a farlo (anzi, a essere “giusti”), mentre a quaranta si è dei casini ambulanti.
“Li trovo così inquieti, i miei figli,” dice a un certo punto Stefania Sandrelli, prima di addormentarsi. Con un’alzata di spalle, il marito Ivano Marescotti le risponde distratto “Troveranno la loro serenità,” che poi tradotto vuol dire “È tardi, non mi scocciare con le storie di quel branco di cretini: è ora che si arrangino.”
Si tratta dello stesso Marescotti che, verso la fine del film, stremato dal caos portato nella sua tranquilla vita di pensionato da figli, nuore, nipoti e cugini, sbotta irrefrenabile e irresistibile: “Io sono cresciuto orfano! A me la famiglia mi sta sul cazzo!”
Di fronte a uscite come queste, perdoniamo tutto: anche i trenta secondi da Parigi di Tea Falco e della sua dizione.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival