120 battements par minute: recensione del film di Robin Campillo in concorso al Festival di Cannes 2017

20 maggio 2017
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Un film forte, a cavallo tra la vita e la morte, che non si risparmia qualche contraddizione.

120 battements par minute: recensione del film di Robin Campillo in concorso al Festival di Cannes 2017

Parlare oggi di quello che accadeva all'inizio degli anni Novanta nel gruppo e nella vita degli attivisti di Act Up, che volevano e vogliono lottare a favore dei malati di AIDS e degli affetti da HIV, può sembrare una scelta strana. Forse lo è.
Ma Robin Campillo di Act Up è stato membro in quello stesso periodo storico, deve aver pensato che fosse necessario: per motivi personali, o forse per riportare attenzione su una malattia di cui non parla più e che sta tornando a crescere.

Certo, la sua ricostruzione viva e un po' ossessiva di tutti i dibattiti, le discussioni, le azioni di Act Up a Parigi, può stancare, e sembrare nelle fasi iniziali del film una sorta di Pubblicità Progresso molto ben confezionata che, con spirito militante, spiega dinamiche e dettagli scientifici, che ricostruisce fedelmente - anche troppo - un clima e una stagione flagellata da una vera e propria epidemia.

Campillo si prende il suo tempo (il suo film dura 144 minuti) e chiede anche allo spettatore il tempo per lasciarsi lentamente conquistare dalle vicende singolari che man mano emergono, dalla recitazione dei suoi bravissimi attori, da una vicenda che mette fianco a fianco questioni sociali e individuali, vita e morte. Voglia di vita, gioia e divertimento, che mai come prima di quel momento avevano camminato in maniera così vicina allo spettro di una morte che appariva, ed era, inevitabile.
E se quel tempo lo si concede, alla fine non si rivela sprecato.

Un po' come in La classe, il film di Laurent Cantet che Campillo ha sceneggiato, è la capacità di evocare la realtà e l'emozione attraverso il cinema che colpisce, che cattura, che convince.
La capacità di stare al tempo stesso dentro un gruppo, dentro la politica, e al fianco di una coppia, di raccontare il calvario di entrambi e la morte di uno di loro senza retoriche e senza falsi pudori.

Certo, forse il francese si concede qualche lusso di troppo, scivola su qualche vezzo registico estetizzante di cui, francamente, si sarebbe fatto volentieri a meno, e che stride con l'energia e il calore della sua storia, con la sua sentita sincerità: ma è innegabile che 120 battements par minute sia un film forte.

Un film fatto di carne e di sangue, che è capace di stare in piedi da solo, e che non ha bisogno di usare come una stampella per puntellare l'assenza del cinema e delle idee il tema che racconta, il dolore che ritrae, una questione che ancora oggi non è stata forse raccontata come si sarebbe dovuto e come ancora oggi si dovrebbe.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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