Un colpo solo: Il Cacciatore e la scomoda eredità del cinema americano degli anni Settanta
Torna al cinema il 22, 23 e 24 gennaio, nella sua versione restaurata in 4K, Il Cacciatore, il capolavoro di Michael Cimino con Robert De Niro e Christopher Walken considerato con Apocalypse Now il film definitivo sulla guerra in Vietnam e sulla sua pesantissima eredità. Ecco una riflessione sul film e la sua importanza.

Non ho del tutto chiaro se ci sia un pubblico per questi frequenti ritorni al cinema di grandi classici. Ma è una domanda pleonastica, perché ci sono cose che hanno fortunatamente ancora un valore non strettamente di mercato. Quarantacinque anni dopo la sua uscita, il restauro restituisce a Il cacciatore la sacra immersione in sala e chiude un ipotetico anello visivo che per molti ha contato tutti i passaggi: televisione, VHS, DVD e l'alta definizione in 2 e 4K. Senza averne mai abbastanza. Almeno per chi, come il sottoscritto, lo considera tra i dieci film della vita.
Una tragedia in tre atti, impossibile da scrollarsi dagli occhi e dalla mente, costruita sull'assunto dell'impossibilità di comunicare l'esperienza della guerra attraverso una formidabile modulazione temporanea. Con buona pace di chi consideri prolissa ed eccessiva la prima parte. E magari macabra la seconda e superomista la terza.
Un fraintendimento, probabilmente sulle intenzioni, sicuramente sulla sintesi, a cui il cinema di Michael Cimino è decisamente abituato, tanto da essere spesso ricordato meno per il valore dei suoi film e più per il celebre e successivo fallimento commerciale di I cancelli del cielo, che è, guarda caso un'altra opera imprescindibile, sugli uomini e sull'America, a cui il tempo ha restituito, come sempre, il posto che gli spetta.
Per come lo percepisco personalmente, per tornare ai rilievi soggettivi, Il cacciatore è tra i pochissimi film capaci di generarmi a ogni visione le stesse sensazioni di stupore, tensione, disagio, paura, incanto e tensione. Addirittura potenziate da questa visione cinematografica, resa vivida dal restauro e immersiva dalla lingua originale, nonostante ne conosca ogni dettaglio a memoria.
Qualunque siano le posizioni sul film, l'impatto di Il cacciatore non dovrebbe però essere in discussione per nessuno: una storia larger than life, come amano definirla gli anglosassoni, che coniuga tutti gli stilemi del migliore cinema americano, nella scrittura, nella messa in scena, nelle incredibili interpretazioni e nella capacità di coniugare il discorso umano a quello sociale, il sentimento alla brutalità, lo spettacolo alla riflessione, l'astrazione all'esperienza visiva.
La sua importanza storica sta anche nella chiusura di un decennio indimenticabile del cinema americano, quello dei Settanta, in cui l'industria fu capace di risollevarsi dal suo scollamento dal pubblico, dalla società e dai nuovi gusti e identità, affidando una dozzina di film, diventati indimenticabili, proprio ai registi che nel decennio precedente ne misero in crisi la propria egemonia.
Se Cimino però non sta alla nuova Hollywood (sia per ragioni anagrafiche che per un'estetica che ha sempre guardato più al cinema classico) con la stessa intensità di Scorsese, Coppola, De Palma e Altman, di certo Il cacciatore è un film cruciale, che precede e si completa nel definitivo Apocalypse Now. Due opere sul Vietnam generate da due impostazioni diverse, ma complementari nel modo di raccontare l'uomo, che insieme hanno come risultato la chiusura di un cerchio, un decennio e una fase del cinema statunitense.
Cinema statunitense che, qui, racconta e le celebra la sua epopea, paradossalmente attraverso lo sguardo di una comunità russa, confinata in una piccola cittadina operaia e pronta a conquistarsi i valori americani andando a servire il Paese che li ha ospitati nel conflitto armato.
Successivamente la realtà verrà messa alla porta in favore dell'evasione e nel fantastico, e sarà sempre più difficile trovare l'opportunità per mettere in scena a Hollywood opere così fluenti, divisive, brutali e sanamente ambigue.
Talmente ambigue che ieri, come oggi, la decodifica ricettiva di questo film così importante ha sempre regalato perle di rara incompiutezza intellettuale. La critica americana soprattutto, da sempre specializzata nell'usare il lanternino deforme della verosimiglianza o soffermarsi su particolari di scarso rilievo, ha insistito a lungo sull'inesistenza di casi di roulette russa durante il conflitto, non cogliendo mai la valenza astratta del simbolo. Mentre quella europea, da par suo, si è impegnata nel dare al film la patente sempiterna di opera razzista quando non fascista, non prendendosi mai la briga di entrare nei meandri dei suoi significati.
E da allora non siamo affatto migliorati.