Oh, Canada, il bilancio di una vita: incontro con Richard Gere
In arrivo in sala dal 16 gennaio il nuovo film di Paul Schrader, Oh, Canada, presentato in concorso a Cannes. Dopo 45 anni torna a collaborare con Richard Gere, protagonista nei panni di un documentarista giunto agli ultimi giorni della sua vita. Abbiamo incontrato l’attore americano.

Il suo sorriso è immutabile, così come l’energia che a 75 anni sembra confermare un patto con qualche divinità, che permette a Richard Gere di non invecchiare. Eppure nel suo ultimo film, Oh, Canada, adattamento del romanzo I tradimenti di Russell Banks, edito in Italia da Einaudi Stile Libero, interpreta un uomo in fin di vita. Diretto da un maestro del nuovo cinema americano come Paul Schrader, è in uscita il 16 gennaio in sala per Be Water. A 45 anni dalla loro collaborazione “di culto” in American Gigolo, tornano a collaborare.
“Quello che ricordo di più di quel film”, rievoca Richard Gere in un incontro via zoom, “è l’immagine del protagonista con alle caviglie dei pesi, in una scena in cui ero a testa in giù. Mia moglie l’ha ritrovata in una maglietta mentre abbiamo traslocato recentemente. Onestamente non ho molti ricordi di quell’esperienza, se non lo spirito di squadra. Eravamo tutto molto giovani, Paul, io, Ferdinando Scarfiotti, che era stato scenografo di Luchino Visconti e Bertolucci, oscar per L’ultimo imperatore. Volevamo fare un film alla Bertolucci, avevamo visto delle sequenze de Il conformista. Ricordo la felicità di imbarcarci in un’avventura molto diversa rispetto ai film che erano in voga all’epoca a Hollywood, anche se era un film di genere. Avevo già anni di esperienza in teatro alle spalle, ero piuttosto tranquillo, Paul aveva già girato un paio di film e scritto la sceneggiatura di Taxi Driver e Toro scatenato. C’era una grande energia positiva”.
In Oh, Canada, Leonard Fife (Richard Gere) è un documentarista di successo, ormai in fin di vita per una malattia. Decide di raccontare la sua vita, senza filtri. Come regista di documentari d’inchiesta ha costruito la sua fama, di cui è molto fiero, e con ragione, ma la fuga in Canada, la diserzione durante la guerra del Vietnam e alcune relazioni passate sono segreti, scomode verità che è pronto a far emergere, a confessare in un’ultima intervista ai suoi ex studenti. L’attuale moglie Emma (Uma Thurman) è in ascolto, mentre le storie travagliate degli anni in cui era giovane (interpretato in quell’età da Jacob Elordi) rivelano l’uomo al di là dell’autore celebrato.
Così racconta l’attore l'avvicinamento a questo complesso personaggio. “Sono un attore, interpreto un personaggio, ho 75 anni e godo per fortuna di ottima salute. Ci ho messo un paio di mesi a indossare i panni di un 85enne malato, capendo come realizzare il trucco, rendendomi calvo con qualche rado capello post chemioterapia. Nello stesso tempo nel film ho anche delle scene in cui devo ringiovanire fino ai 40 anni. Sono energie e stati d’animo diversi, che appartengono alla vita. È il mio mestiere, sono costruito per indossare personaggi diversi e lo faccio da tanto tempo. Leonard era scritto molto bene, mi sono confrontato molto con Paul Schrader. Avevo perso da poco mio padre, e questo ha nutrito la mia interpretazione, perché lui ha attraversato più o meno lo stesso travaglio sul piano fisico e mentale. Un terreno che quindi conoscevo bene”.
L’America raccontata in questo intenso film di Schrader, che arriva dopo tre gioielli che hanno rappresentato per lui una rinnovata giovinezza come First Reformed, Il collezionista di carte e, soprattutto, Il maestro giardiniere, è quella fra anni ’60 e ’70, quella dell’impegno politico e sociale della ribellione al Vietnam. Alla nostra domanda sul suo rapporto con quell’età cruciale Gere ci ha raccontato che “sono stati gli anni in cui ho inventato me stesso, un momento che ha galvanizzato intere generazioni negli Stati Uniti, ma anche in Europa. Movimenti che hanno forgiato il mondo intero come quelli femministi, che ci hanno spinto a riflettere su un modo diverso di interagire gli uni con gli altri. Forse un poi naïf, ma la base era estremamente pura, invitava a vivere la vita in maniera diversa, qualcosa che sarebbe utile anche oggi nell’immagine una rinascita, un modo di stare al mondo più equo. La generazione attuale non ha un quadro d’insieme che vada al di là del presente, che possa interessare anche alle generazioni future, è concentrata su un microcosmo e non un macrocosmo. È questo che manca oggi. Ho spesso chiesto a mio padre, nato nel 1922, un periodo precedente a tante infezioni, se la vita all’epoca era migliore, a lui nato e cresciuto in una fattoria, a contatto con gli animali. La sua risposta è sempre stata che invenzioni come il computer non hanno migliorato la nostra vita. Allora c’era una visione d’insieme più ampia, che dava un senso all’essere umano e ai suoi rapporti con un’intera comunità. Il contatto con la natura e gli animali era strettissimo, se pioveva o gelava i frutti non crescevano. Questo portava gli esseri umani a essere più uniti e a prendersi le proprie responsabilità”.
A proposito di oggi, lui che si è sempre esposto politicamente in prima persona, impegnato in cause umanitarie, grande amico del Dalai Lama, cosa pensa della maniera in cui in questi anni prendono o non prendono posizione personalità della cultura e dello spettacolo? “Anche oggi mi sembra che gli artisti siano molto impegnati in prima linea nella riflessione sulla realtà attuale, fa parte della loro responsabilità, a maggior ragione se sono noti. Devono essere molto preparati sulle cause che vogliono difendere e trovare il coraggio di prendere la parola. Ne esistono tanti esempi. Se consideriamo i grandi cambiamenti nel mondo, dalle rivoluzioni al cambio di regime in Unione Sovietica, il consiglio che mi sento sempre di dare è ascoltare i poeti, i scrittori, i musicisti, sono loro che hanno a cuore la cultura di un popolo, di cui si può fidare, non certo i politici. E fra questi anche cineasti e attori, naturalmente”.