L’estate è bollente, la città è in fiamme: dopo trent'anni Fa' la cosa giusta è più vitale e attuale che mai
Abbiamo rivisto per voi il film che lanciato la stella di Spike Lee, uno dei più importanti registi in circolazione

L’estate è bollente, la città è in fiamme. In un quartiere popolare uomini e donne, vecchi e bambini, lavoratori e perdigiorno, cercano di resistere come possono alla canicola, e di non farsi andare in ebollizione anche il cervello. Di mantenere la calma e non perdere le staffe e il senso delle proporzioni, cedendo a provocazioni grandi e piccole, magari pure involontarie, o immaginarie.
Non è mai facile, quando a dover convivere sono gruppi diversi, razze diverse, abitudini diverse. Quando il caldo è insopportabile, poi, diventa difficilissimo.
Al contrario, dire cose come “tornatene a casa tua” o maledire la gentrificazione (vera o presunta), gridare all’invasione del proprio territorio, pretendere che chi ha una cultura diversa dalla nostra celebri i nostri eroi e non i suoi, e strepitare insulti a sfondo razziale è qualcosa che può accadere assai più facilmente che non in altre situazioni. E quelle cose lì, quelle parole lì, possono diventare scintille in grado di scatenare l’incendio che, sotto il sole dell’estate, aspetta solo di divampare.
Sembra una storia di oggi, di questi giorni italiani dalle temperature altissime quasi quanto le tensioni sociali, e invece è, purtroppo, una storia eterna, che Spike Lee ha fissato in un film trent’anni fa. Un film esplosivo, colorato, divertente, spaventoso e intelligente, di una vitalità e di un’inventiva che stordiscono e stupiscono ancora oggi.
Certo, a raccontare il talento del giovane regista nato ad Atlanta ma cresciuto a Brooklyn, e diventato il corrispettivo al nero di Woody Allen, come regista simbolo di New York, prima c’erano stati Lola Darling e Aule turbolente. Ma a fissare definitivamente il nome di Spike Lee in cima alle liste dei registi che contano dei nostri tempi è stato, senza dubbio alcuno, Fa’ la cosa giusta.
Venne presentato al Festival di Cannes, suscitando scalpore per la sua forma innovativa e per contenuti che vennero ritenuti quasi sovversivi, ma rimanendo a bocca asciutta: dalla giuria guidata da Raf Vallone non arrivò nemmeno un premio. E fratello Spike - uno notoriamente dal caratterino non facile: ripensate alle scene fatte durante la Notte degli Oscar di quest’anno, e poi provate a immaginare reazioni analoghe di quando viveva ancora l’energia ribelle dei vent’anni - non la prese benissimo.
Non posso essere certo che Fa’ la cosa giusta fosse il film più bello di quel concorso di Cannes (un concorso vinto da Sesso, bugie e videotape di Soderbergh, ma c’erano anche Mystery Train di Jarmusch, Il tempo dei gitani di Kusturica, Splendor di Scola, Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, solo per citarne alcuni). Di sicuro era quello più vitale, più nuovo, più sconvolgente. E quella vitalità lì, figlia di Brooklyn e dell’hip hop, e di una cultura black che Lee sintetizza in elenchi e opposizioni binarie, non ha perso un briciolo della sua trascinante energia.
Bastano i primissimi minuti del film, per capire che tipo di film sia Fa’ la cosa giusta: con le morbide note del sax di Brandford Marsalis che si passano il testimone con le sonorità aggressive di "Fight the Power" dei Public Enemy: il pezzo che Radio Raheem suona a ripetizione e incessantemente, sino alle estreme conseguenze (per lui).
Con gli anelli a tutta mano indossati da quel ragazzone inseparabile dal suo ghetto blaster, che mostra con orgoglio al Mookie interpretato dallo stesso Spike Lee, con tanto di parabola raccontata in maniera fin troppo esplicita: HATE sulla mano sinistra, LOVE su quella destra.
Con Sal, Pino e Vito e la loro italianissima pizzeria nel bel mezzo dell’angolo più nero di Brooklyn, quello di Bedford–Stuyvesant (tutto il film è girato lungo Stuyvesant Avenue), nella quale però lavora, accolto e trattato come un figlio da Sal, proprio Mookie. D’altronde, Sal è sinceramente orgoglioso che tutti quei ragazzi neri, che il rissoso e odioso Pino (interpretato da quel fenomeno di John Turturro come solo lui sa fare) sembra detestare davvero, siano cresciuti con le sue pizze, e la comunità ricambia quel sentimento.
Peccato allora che a turbare quell’amore (l’amore di Sal, del Sindaco di Ossie Davis e di Mother Sister, e del dj Mister Señor Love Daddy) non ci sia solo l'odio di Pino, che tutto sommato è irrilevante, anche perché non può nascondere l’ammirazione per gente come Magic, Prince e Eddie Murphy. No, c'è anche l’inquieto Buggin' Out, militante black un po’ ottuso che Lee, con ironia più o meno consapevole, fa interpretare a un attore che si chiama Giancarlo Esposito, e che pianta una grana che non finisce più perché lì, sui muri della Sal’s Famous Pizzeria, ci sono solo italoamericani (da Sinatra a Pacino, passando per Joe Di Maggio, Stallone, Travolta e tanti altri) e nemmeno un fratello nero.
Solo alla fine, dopo la lite tra Sal e Radio Raheem al termine di una giornata bollente e stressante, dopo l’intervento violento insensato della polizia, dopo la rivolta e la distruzione della pizzeria innescate dall’ondivago Mookie (che per tutto il film ha viaggiato sul filo sottile che separa l’odio dall’amore, quello ambiguo dell’indifferenza), su quel muro campeggeranno insieme, sorridenti, Martin Luther King e Malcolm X; messi lì dal povero Smiley, lo svitato balbuziente, che finalmente trova una collocazione per quelle foto che cerca di piazzare a qualcuno dall’inizio del film e di questa storia.
Certo, ci sono i suoi primissimi piani esagerati, i colori degli abiti e degli arredi, la musica, l’orgoglio nero, le inquadrature storte e i personaggi indimenticabili e sopra le righe, ma è dall’attrito costante tra LOVE e HATE che Fa’ la cosa giusta trae la sua forza.
Tra la lotta costante per la supremazia nelle teste e nelle mani dei suoi protagonisti, che sono tanti, e sfumati, e rappresentano tutto uno spettro di posizioni - al nero, certo, visti da quel punto di vista culturale lì, ma non solo - rispetto a quanto sia lecito fare per difendere sé stessi e i propri valori, oltre che le proprie vite.
Fu accusato di essere sovversivo, il film di Spike Lee, ma non lo era allora e tantomeno lo è oggi.
Eppure, il regista aveva messo tutto così in chiaro: non solo con le due didascalie finali, una del Reverendo King, l’altra di Malcolm, una puramente non violenta, l’altra che giustifica l’autodifesa con tutti i mezzi.
Perché alla fine il gran casino del finale di Fa’ la cosa giusta non mette mica contro neri e bianchi, o perlomeno non in maniera così banale. Mica la rivolta scoppia davvero per foto sui muri di Sal, o per la musica alta di Radio Raheem: scoppia perché la polizia, a Radio Raheem, lo ammazza. E come insegna Ta Nehisi-Coates, la vita dei neri è sempre in costante pericolo, anche negli Stati Uniti di oggi. Forse ancora di più oggi di quanto non fosse trent’anni fa.
E allora c’è qualcosa di molto intenso, e di molto commovente, nel confronto finale tra Mookie e Sal, quando al mattino tutto è finito.
In origine quel confronto, sul copione, era ancora più aperto alla riconciliazione, ma in fondo Spike Lee ha fatto bene a chiudere come ha chiuso. Col dolore di entrambi - di due uomini che si amano e si rispettano, malgrado tutto - per quel mondo incazzato, per un razzismo che sembra non aver mai fine, per quel Sistema così aggressivo sempre e solo contro i neri, che gli impedisce di vivere in pace, serenamente, l’uno di fianco all’altro.
E se Spike Lee fa abbracciare a Mookie lo spirito di Malcolm (cui dedicherà un biopic nel giro di qualche anno), glielo fa fare carico di amarezza, e del rimpianto di non aver potuto seguire unicamente le parole del Reverendo King.