The Bondsman, la recensione: Kevin Bacon contro i demoni (del suo passato, più che quelli dell'inferno)
Più che una serie (in senso contemporaneo), un telefilm: un prodotto rétro, che non si prende troppo sul serio, che azzecca ambientazioni e toni: certo, se vi interessa la dimensione horror lasciate stare, perché qui si parla di personaggi e legami familiari.
The Bondsman, forse lo saprete, racconta la storia di Hub Halloran, un moderno cacciatore di taglie che, all’inizio del primo episodio, viene ucciso ma risorge per intervento del Diavolo, che lo recluta come soldato perché combatta e elimini alcuni demoni ribelli che hanno deciso di portare scompiglio dalle sue parti (lì dove le sue parti sono l’immaginaria contea di Landry, nel sud della Georgia). Quindi: Hub - ovvero Kevin Bacon, che a 66 anni sfoggia una forma fisica invidiabile - contro i demoni dell’inferno. Sulla carta, ci si può stare.
Quello che forse non sapete, è che assieme, e forse più della vicenda della caccia ai demoni, uno nuovo in ognuna delle dieci puntate che compongono quella che chiaramente ambisce a essere una season 1, The Bondsman racconta anche un’altra storia, che ha sempre Hub come protagonista, ma che riguarda il suo tentativo di riconquistare la moglie Maryanne; Maryanne, che l’ha piantato dopo un passato di aspirazioni musicali comuni, stanca delle sue ritrosie e dei casini che combinava, e che andata a vivere assieme a loro figlio Cade da Lucky, un bostoniano - tifoso dei Red Sox - con un passato da malavitoso che è andato a vivere a Landry e ha aperto il bar più popolare e frequentato della città.
Come si vadano a intrecciare le due vicende, lo scoprirete da soli: per ora vi basti sapere che Hub finirà, più o meno a malincuore, col coinvolgere l’ex moglie e il figlio nella faccenda della lotta ai demoni - che poi si rivelerà anche il tentativo di salvare più o meno tutto il pianeta da un’invasione infernale - così come accade già dal primo episodio con sua madre Kitty (la brava caratterista Beth Grant).
The Bondsman: il trailer ufficiale della serie
Ora. The Bondsman è tutt’altro che un capolavoro. Se siete appassionati di horror e la questione della caccia ai demoni è quella che vi interessa di più, il consiglio sarebbe quasi quello di lasciare perdere: perché parliamo di tensione, spaventi e effetti speciali, le cose vanno proprio malino. Ma il fatto è che - un paradosso, mi rendo conto - di tutta quella roba lì alla Supernatural a questo Grainger David che ha ideato la serie interessa proprio pochissimo: lo si vede da quanto sia poco curata la scrittura, o anche banalmente dallo screentime che la vicenda demoniaca occupa nel corso delle puntate.
Il fatto è che nel suo essere sgamata e perfino un po’ ruffiana (fin dall'apertura sulle note di "Spirit in the Sky"), The Bondsman si rifà chiaramente al modello dei serial di qualche decennio fa, quelli che un tempo, prima dell’espolosione del fenomeno “serie tv”, chiamavano - noialtri un po’ attempati - i “telefilm” che si guardavano il pomeriggio sui canali privati della televisione. E, anche come conseguenza di tutto questo, il fatto è che a The Bondsman quello che sta davvero a cuore sono i rapporti tra Hub e la sua famiglia (quello con sua madre, quello con Maryanne e Cade), la sua rivalità spietata con l’ambiguo Lucky che, si scoprirà, è fatta anche di gesti estremi e di cui Hub dovrà scontare le conseguenze.
Sarà perché Bacon è Bacon, e in Hub ha messo molto del suo personaggio pubblico e non, compresa la passione per la musica country (le canzoni di Maryanne e Hub sono state scritte ed eseguite proprio da Bacon e da Jennifer Nettles, l'attrice e cantante country che interpreta Maryanne), ma a quel personaggio si finisce con l’affezionarsi distrattamente come si si affezionava ai protagonisti di una volta, quelli di quei telefilm che si guardavano in tv per puro piacere di evasione e intrattenimento, con le puntate che duravano poco come durano queste di The Bondsman, che è una serie così, di evasione e intrattenimento, non certo perché se ne scriva sui giornali e sui social e se ne debba fare un dibattito pubblico o una medaglia di merito. Perché a volte basta quello.
A volte bastano un’ambientazione azzeccata, un tono e un registro che funzionano senza stupire, la voglia di essere volutamente rétro (e non vintage) e di non prendersi mai davvero (troppo) sul serio, un sacco di bella musica (oltre al country di Bacon e Nettles, ci sono un sacco di classici del southern rock e del blues), gli spazi naturali del Sud degli Stati Uniti, pick up e 4X4 come se piovessero, birre gelate a profusione, giacconi da lavoro, qualche improbabile cappello da cowboy, e una storia disimpegnata ma non cretina.
Se poi ci sono anche un po’ di pistole e i demoni, beh: male non può di certo fare.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival