Dream Productions, la recensione della miniserie Pixar degna di un Inside Out 3
Non è un semplice spin-off: la miniserie Dream Productions della Pixar, in streaming su Disney+, guarda il mondo di Inside Out da un'angolazione diversa, costruendo una metafora geniale e, ancora una volta, commovente. La nostra recensione.
Riley sta per affrontare un ballo scolastico ed è un po' confusa: le sue emozioni fanno quello che possono, ma delegano alla sua attività onirica un riordino del subconscio. Come sappiamo, i suoi sogni sono gestiti dalla Dream Productions, sorta di major cinematografica nel suo cervello: in questa delicata fase di crescita, le idee della regista Paula Persimmon sono antiquate e i sogni sembrano ancorati all'infanzia ormai passata, mentre non sembra molto d'aiuto l'innovazione distruttrice del nuovo aiuto-regista Xeni, specializzato in sogni a occhi aperti...
La miniserie Dream Productions: Dal mondo di Inside Out su Disney+, quattro puntate da una ventina di minuti per una narrazione unica, sorprende davvero chi si aspettava uno spin-off di Inside Out e Inside Out 2 dettato dal marketing: d'altronde nessuno poteva aspettarsi che quest'ultimo film diventasse in estate il più alto incasso della storia dell'animazione (inflazione permettendo). L'intuizione originale quindi di Pete Docter, ora direttore creativo Pixar, continua a pagare e stupire: l'eredità viene raccolta in questo caso da Mike Jones, autore del copione e già cosceneggiatore di Luca e Soul, qui anche regista di due episodi, insieme a Valerie LaPointe e Austin Madison. La qualità produttiva è quella Pixar, senza sconti, senza appalti a studi terzi, con un character design irresistibile: Dream Productions non avrà l'onore di essere trasformato in film, com'è successo alla miniserie che ha dato origine a Oceania 2, però se lo meriterebbe. Al di là della tecnica, sono ambizione e finezza a farne un tassello degno della storia pixariana, anche se la miniserie rimane un po' incerta tra il taglio "mockumentary" e una regia tradizionale. Poco male.
Abbiamo ritenuto Dream Productions più stimolante di Inside Out 2, che pure ha tanti meriti: lì dove però l'ultimo film ha continuato a costruire sulle emozioni di Riley, potenziando la stessa dinamica, questa miniserie cambia prospettiva, con maggiore freschezza. Idealmente collocata tra il primo e il secondo lungometraggio, la vicenda presenterebbe la sempre suggestiva lettura metaforica della crescita della ragazzina, ma la metafora in questo caso si allarga. "Se puoi sognarlo puoi farlo", era il motto di Walt Disney, e spostare l'attenzione sui sogni, descriverli come film girati da una troupe in uno "studio system", rende Dream Productions una riflessione sull'arte cinematografica e sulle sue necessità commerciali e sociali, oltre a mandare avanti lo sviluppo di Riley.
Ricordando quanti negli ultimi anni hanno criticato una Pixar presumibilmente a corto d'ispirazione, "vecchia", fa sorridere il personaggio di Paula: i suoi sogni a base di unicorni-sirena non funzionano più, il pubblico è cambiato. La sua difensiva, di fronte al cambiamento tumultuoso dei gusti di Riley, è quella che i creativi sulla breccia vivono sempre, col fiato sul collo degli executive dei grandi studi (ce n'è una anche qui). Sempre resi ansiosi da un monitoraggio ossessivo degli indici di gradimento: si intravede una macchina che pare una presa in giro di Google Analytics. Sembra che gli artisti dietro a Dream Productions raccontino anche se stessi, un mondo che conoscono bene. Ma non raccontano solo le loro difficoltà, mettono sotto esame anche le soluzioni più facili.
Il personaggio dell'artista "indie" Xeni, il regista di sogni a occhi aperti, è la mente che può avere intuizioni preziose ma rischia di far danni perché più ossessionato dal demolire il sistema, invece che cambiarlo dal di dentro (Walt Disney diceva: "Nel nostro studio è vietato l'accesso ai geni"). E veterani timorosi di rimettersi in gioco, come Paula, non sono di certo migliori. I tiri mancini arrivano da tutte le direzioni, però nessuno ha davvero torto. Si parla di arte e successo, dopotutto: avete ricette sicure? Ma per salvare tradizione e innovazione ci vuole l'umiltà della manovalanza dell'aiuto-regista Janelle, che manca dell'esperienza o delle volontà rivoluzionarie, però nelle retrovie osserva i cambiamenti nel mondo che la circonda... e capisce quanto sia importante tenerli in conto, senza prostrarsi a essi meccanicamente, come fa la boss dello studio, ansiosa di replicare all'infinito quello che ha funzionato.
E allora un po' ti commuovi, quando senti traballare così tanto la quarta parete e capisci che Dream Productions è un ragionamento a cuore aperto su cosa significhi creare intrattenimento, con una morale (enunciata nel finale da Paula) che riecheggia quell'umiltà intelligente che tanto amammo nelle parole del critico Anton Ego di Ratatouille. Si badi bene, però: la Pixar non usa la crescita di Riley come scusa per un discorso ombelicale. Vola più alto di così, perché se c'è un bisogno di sognare, si cresce grazie ai sogni, e non c'è nulla come l'arte per sostenerci in questo percorso. Qualunque strada si scelga per creare, c'è una missione, c'è una responsabilità. I sogni ci aiutano a rielaborare il senso delle esperienze esistenziali... e il discorso non vale forse anche per il grande cinema o la grande tv? Il percorso è accidentato, come ogni percorso che prevede un'autorialità collettiva, costosa, che deve pur guardare ai risultati e ai numeri. Ma è una missione nobile, com'è nobile nell'anima Dream Productions.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"