You'll Never Find Me - Nessuna via d'uscita, la recensione: un kammerspiel horror che ricorda Poe
Un thriller psicologico tesissimo, un horror da camera sull'idea della colpa che non lascia scampo. La recensione di You'll Never Find Me - Nessuna via d'uscita di Federico Gironi
“Era una notte buia e tempestosa…”: cominciano sempre così i racconti che Snoopy inizia a battere a macchina, e comincia così anche You’ll Never Find Me, film che più con i Peanuts ha a che vedere con Edgar Allan Poe.
Comincia con la più buia e tempestosa di tutte le notti buie e tempestose, col vento e la pioggia che sferzano la casa prefabbricata di un uomo barbuto e spaventato, che si guarda attorno come se attendesse da un momento all’altro di essere aggredito da qualcuno. O da qualcosa.
Qualcuno o qualcosa che forse cammina sul tetto, forse si nasconde nel buio, forse è fuori dalla porta. E quando allora, alle due di notte, qualcuno bussa davvero a quella porta, all’improvviso e con vigore, l’uomo sobbalza, grida “andate via”, ma finisce poi per aprire. E fuori, fradicia di pioggia, trova una ragazza giovane, scalza, sperduta. Alla ragazza serve un passaggio fino in città, o un telefono, ma l’uomo non può fornirle né l’uno né l’altro: una coperta, una zuppa calda, un bicchiere di whisky, al massimo.
Lei sembra spaventata e a disagio, ma le sue risposte sono spesso ambigue e contraddittorie; lui sembra scettico, ma al tempo stesso sembra trovare sempre delle scuse per non far uscire la ragazza da quella che sembra piena di inspiegabili ninnoli femminili. Allora è lei che è finita in una trappola, o è lui che si trova di fronte quel qualcuno, o quel qualcosa, che lo terrorizzava?
Una sola location, due attori, dialoghi più che gesti a garantire tensione e dinamismo: sarà anche un thriller, You’ll Never Find Me, o un horror, ma di certo è anche un kammerspiel, e quindi una storia dalle chiare e forti connotazioni psicologiche, un gioco sottile e crudele dove le verità vengono disvelate lentamente, e dove la componente espressionista del linguaggio cinematografico è evidente.
Per farlo, il kammerspiel, devi essere bravo, e Josiah Allen e Indianna Bell (quest’ultima anche autrice del copione) bravi lo sono. Funzionano il testo e la storia, funzionano gli attori scelti (Brendan Rock, davvero notevole, e Jordan Cowan), funziona il modo in cui la notte buia e tempestosa continua a aggiungere tensione su tensione (oltre all’idea che, là fuori, ci possa essere qualcosa), funziona il continuo gioco del gatto col topo - senza sapere a lungo avere certezza di chi sia davvero chi - tra i due protagonisti.
Perché, certo, si sarebbe portati a pensare che lei sia finita nella tana del lupo; ma allora perché lui è così spaventato? Certo, lei fornisce versioni contraddittorie ssu chi sia, da dove venga e perché si trovi lì nel bel mezzo della notte, ma allora perché appare così spaventata?
La claustrofobia del tutto non deriva solo dalla singola location, peraltro piuttosto spartana e disadorna, oltre che isolata, ma dal modo in cui Allen & Bell, evidentemente amanti del gotico, giocano sui primi piani dei loro protagonisti, cercando di scrutare quello che si nasconde dietro la superficie degli sguardi e dei sorrisi abbozzati; da quello con cui enfatizzano i dettagli, le ombre, le attese, i suoni che provengono dall’esterno o da dietro porte, o tende, momentaneamente chiuse. A volte i vuoti vengono riempiti dai monologhi di lui, che si chiama Patrick, sfoghi nichilisti sulla natura umana e sull’esistenza, altre dalle movenze nervose degli occhi e delle mani di lei, che un nome non ce l’ha, e forse non a caso.
You’ll Never Find Me non molla mai lo spettatore, lo tiene sulla corda sempre, anche quando può sembrare che i ruoli inizino a delinearsi, e sembra divenire chiaro chi sia la preda e chi il predatore, perché poi i ruoli vengono di nuovo ribaltati, e il film finisce col diventare quello che forse era intuibile sarebbe diventato. Ma attenzione, perché fino alla fine You’ll Never Find Me sorprende: per soluzioni visive e narrative, e per immagini, che sembrano richiamare l’Ozploitation, certe visionarietà argentiane, e i manichini di Maniac, ma anche per rigore logico e filosofico. Perché, sì, certo, il thriller, perfino l’horror, il kammerspiel, ma quello di Allen & Bell, allora, più di ogni cosa, è un film che parla di colpa, in senso filosofico e perfino religioso, dell’illusione di sfuggire a questa colpa, e di come - anche di fronte a qualsiasi illusione superomistica - questa colpa un conto da pagare lo presenti sempre, e sempre salatissimo.
Poe ce la l’aveva detto coi suoi racconti, Allen & Bell lo ribadiscono con questo loro film.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival