Yardie: la recensione del film che segna l'esordio nella regia di Idris Elba
Tratto da un romanzo omonimo diventato popolare all'inizio degli anni Novanta, è stato presentato al Festival di Berlino 2018 nella sezione Panorama: un gangsta movie in salsa ragamuffin.
Idris Elba non è giamaicano. E, pur figlio di una madre ghanese e di una madre della Sierra Leone, è nato a Londra. Però conosce bene, per esperienza personale, il mondo delle comunità immigrate della capitale britannica, nonché la forza e l'importanza della scena musicale, lui che prima ancora di diventare attore di era fatto un nome come DJ.
E allora non è una sorpresa che, per la sua opera prima da regista, abbia scelto la storia di Yardie.
Yardie, in gergo, vuol dire giamaicano. E Yardie era anche il titolo di un romanzo di Victor Headley popolare all'inizio degli anni Novanta, e per ammissione di Elba uno dei pochi libri che aveva letto da ragazzo.
La storia è quella, dagli echi più che sottilmente shakespeariani, di un giovane di nome D che ha visto suo fratello, animatore di uno dei sound system più amati della Giamaica, ucciso davanti ai suoi occhi quando aveva solo 10 anni, a Kingston, e che viene preso sotto la sua ala protettrice da King Fox, leader di una delle due gang che suo fratello stava cercando di riappacificare quando è morto.
La storia è quella della sua sete di vendetta, del destino che lo farà finire a Londra, dove incontrerà di nuovo la madre di sua figlia e dove, per carattere e per susciterà un parapiglia lo porterà a sciogliere i nodi del passato tra musica, cocaina, armi e locali notturni.
La storia di un uomo che deve scegliere se percorrere la strada dei virtuosi o quella dei malvagi: e in questi casi, si sa bene come vada quasi sempre a finire.
Elba ha l'intelligenza di fare un passo indietro e di non fare l'attore in questo suo primo film da regista, di scegliere un cast in grado di supportare e sospingere il dinamismo rabbioso della storia, di girare senza presunzione e senza scopiazzature.
Il mondo di Yardie, tanto quello giamaicano quanto quello londinese, lo conosciamo già, lo abbiamo già visto in mille film, e il neo-regista non appare interessato a ricercare nuovi angoli o originalità a tutti i costi: a lui basta che questa storia di gangster, d'amore e di vendetta, sia precisa e corretta. Che sia affascinante da vedere, e che le immagini trasmettano energia, aiutato in questo dal direttore della fotografia John Conroy, che poi è lo stesso d Luther.
Avesse fatto la stessa attenzione che ha dato alla forma anche all'intreccio narrativo, e alla sceneggiatura, Elba avrebbe firmato un bell'esordio: ma a Yardie manca proprio la forza della storia e della parola, il che è un bel paradosso se si pensa che si è partiti da un libro.
All'interno di una struttura nota (il trauma, la perdizione, la vendetta, i bersagli che in fondo sono innocenti, il padrino con i segreti), Elba fa muovere il suo protagonista senza aggiungere nulla alle motivazioni che sono ovvie, gli fa compiere scelte un po' incomprensibili e cerca un pathos narrativo e di emozioni che non sempre trova.
Resta la musica, che di questo film è una protagonista vera. Resta un mood reggae un po' maledetto, restano atmosfere evanescenti, come l'aroma dell'erba che aleggia in una stanza oramai vuota, e i bassi che si sentono dall'altra parte del muro. Restano i protagonisti: Aml Ameen e Shantol Jackson (che sono belli, ma anche bravi), e uno Sheldon Shepherd il cui King Fox pare uno Snoop Dogg in salsa ragamuffin.