Yannick - La rivincita dello spettatore: recensione del nuovo film di Quentin Dupieux
Un Dupieux inedito, meno surrealista e demenziale, ma non meno provocatorio e intelligente, gira un piccolo film strapieno di spunti, tutti gestiti con grande abilità. La recensione di Yannick di Federico Gironi.
Va guardato con attenzione, Yannick, per capire che, sì, è vero, a prima vista sembra quasi non essere un film di Quentin Dupieux, perché di Dupieux non ha la follia esibita, lo sberleffo surrealista, la comicità demenziale. Però, a guardarlo bene, con attenzione, ci si accorge che tutto quello che sta in Yannick è puro Dupieux, anche e soprattutto lì dove non sembra. In come mette e muove la macchina da presa, tanto per fare un esempio.
Attenzione poi fa fatta a non farsi ingannare troppo dalla trama: perché sì, Yannick (con astuzia sottotitolato “La rivincita dello spettatore”) parla di un giovane uomo che interrompe il noioso spettacolo teatrale cui sta assistendo, protestando perché lui, per essere lì, ha speso soldi ma soprattutto tempo (la vera valuta dei nostri tempi), e che in qualche modo, un modo prepotente, impone che gli attori sul palco recitino un copione scritto lì, sul momento, da lui. Ma i modi, i tempi, le reazioni e i risultati non sono affatto quelli che, pigramente, potremmo immaginare in base a tali premesse.
Dupieux, che è un provocatore nato, vivaddio, gioca la carta scottante del terrorismo, mettendo in mano al suo insoddisfatto Yannick un’arma, e raccontandolo - almeno inizialmente - come un personaggio psicologicamente poco equilibrato. Lo dice lui stesso: “Vengo da un periodo difficile”. Sono passati nove anni, dal Bataclan, ma insomma: mettere un uomo armato dentro un teatro, e fare degli altri personaggio al suo fianco suoi ostaggi, non è esattamente un gesto da poco.
Posto che per la vera violenza, la violenza fisica, in questo film, non c’è spazio (e che comunque come vuole Cechov, a un certo punto la pistola spara), quel che a Dupieux interessa in questo film è un sopruso e una violenza che sono quelli dei rapporti di potere dettati dal privilegio (quello di stare su un palco invece che sotto di esso) e dal denaro (chi ha pagato per uno spettacolo e chi viene pagato per metterlo in scena), i loro incroci, le loro collisioni.
In qualche modo poi, quando la famosa pistola passa dalle mani del Yannick di Raphaël Quenard a quelle dell’attore di teatro interpretato da Pio Maramaï, il quale diventerà più violento del supposto svitato attentatore, Dupieux parla anche dell’arroganza dell’arte, o di quel che si pensa e suppone tale, e del narcisismo insito in ognuno di noi, pronto a esplodere: giacché l’attore non è irritato tanto dall’interruzione o dalle imposizioni, quanto dal fatto che Yannick stesse, mentre loro cercavano di imparare le loro nuove parti, conquistando quel che riteneva essere il “suo” pubblico. Come a dire che non è l’approvazione, ciò che ci interessa, quanto il consenso acritico della popolarità.
Non manca il divertimento, la bizzarria e l’assurdo fanno sempre capolino da dietro i pesanti damaschi rossi del teatro parigino (si tratta dello storico Déjazet), ma in Yannick Dupieux dimostra una capacità quasi insospettabile di trattare - a modo suo, certamente - il dramma, la frustrazione, la malinconia. Perfino la cattiveria umana.
Prima di un finale silenzioso, cupo e aperto, che parla d’irruzioni nel teatro, Dupieux mette sul palcoscenico del teatro e sullo schermo di fronte ai nostro occhi una composizione quasi commovente tra posizioni: l’attore recita contento, l’ex spettatore diventato autore osserva soddisfatto e commosso, il pubblico ride.
In un modo o nell’altro, quell’equilibrio, finalmente fecondo, è destinato a durare poco.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival