Vittoria e Abdul: recensione della sorprendente commedia in costume di Stephen Frears presentata a Venezia 2017
Amicizia inusuale fra una regina e un servitore indiano.
Un rumore nitido irrompe sullo schermo nero, con i primi fotogrammi. Qualcuno sta russando pesantemente, senza lasciare spazio a interpretazioni. La figura imponente che sta beatamente dormendo, salvo essere richiamata presto dall’abbraccio di Morfeo, è una delle sovrane più iconiche della storia della corona britannica: la regina Vittoria. Stephen Frears fin dal primo istante smitizza questa figura leggendaria, rende evidente il tentativo di entrare nella sua quotidianità annoiata degli ultimi anni del suo lunghissimo regno, al tramonto del XIX secolo. La routine infinita di inaugurazioni e rituali più o meno vuoti di significato hanno logorato la pazienza di una donna che tagliò nastri per 63 anni, 7 mesi e due giorni, dal 1837 al 1901. Quello che per molti decenni non si è saputo, però, è che negli ultimi tempi dell’epoca poi passata alla storia come vittoriana a farle compagnia come segretario, poi maestro, consigliere spirituale, ma soprattutto amico, se non addirittura figlio putativo, fu un indiano di nome Abdul Karim.
Una figurata cancellata dalla storia per l’intervento invidioso degli avvoltoi della corte, su tutti il figlio Bertie, poi salito al trono come Edoardo VII che ora viene raccontata in Vittoria e Abdul. Nessuno vedeva di buon occhio questo rapporto inatteso, nato per caso nel corso della consegna di una moneta all’imperatrice d’India da parte di due indiani, uno dei quali il piacente Abdul. La consueta ficcante ironia di Frears ci propone una cesura improvvisa della regina, per i primi minuti sempre ingrugnita e ringhiosa, quando incrocia per caso - in violazione dell’etichetta di corte - lo sguardo dell’esotico visitatore. Primo bagliore negli occhi, primo sorriso, e inizio di un rapporto che col tempo andò consolidandosi e approfondendosi, dando modo alla regina di aprirsi al mondo, a una parte così remota del suo impero che non visitò mai. Una valvola di sfogo e un’occasione per conoscere qualcuno svincolato dai rigidi formalismi della corte.
Se la prima parte si dilunga in un tradizionale quanto godibile disamina su differenze e difficili comprensioni fra culture, usi e religioni differenti, Vittoria e Abdul si dipana poi come occasione di crescita reciproca di una coppia curiosamente assortita di amici a corte, non mancando di qualche spolverata di zucchero, in una sceneggiatura scritta dall’autore di Billy Elliot, Lee Hall, adottando un libro della giornalista Shrabani Basu, da metà ottobre in Italia per Piemme. Solo qualche anno fa, infatti, sono stati recuperati i diari del meno credibile dei segretari per una regina d’Inghilterra. Vittoria e Abdul è un prodotto di alta confezione da parte di un fuoriclasse del genere come Frears, solidamente alimentato da una storia molto curiosa e affascinante, che rischierà anche talvolta l’edificante con fiocco regalo, ma regala l’ennesima sontuosa interpretazione di Judi Dench, e già questo sarebbe sufficiente a renderlo meritevole di una visione.
A poche settimane dall’anniversario della morte della principessa Diana, secondo alcuni teorici del complotto assassinata perché sul punto di sposare il suo compagno musulmano Dodi Al Fayed, una storia su un non cristiano che supera la soglia degli appartamenti privati dell’imperatrice britannica, divenendo un consigliere tra i più ascoltati.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito