Una notte da leoni 3 - la recensione del capitolo finale della serie
L’epico finale di una storia che non avrebbe mai immaginato di arrivare a tanto.
L’epico finale di una storia che non avrebbe mai immaginato di arrivare a tanto. Una notte da leoni doveva essere un film divertente senza grandi pretese ed ha avuto quel successo che non t’aspetti e soprattutto quel Golden Globe come miglior commedia che t’aspetti ancor meno. Replicarlo, quel successo, è stato arduo perché la formula vincente di Las Vegas riproposta a Bangkok nel sequel ha logicamente perso l’effetto sorpresa, nonostante le nuove e più straripanti disavventure dei protagonisti. Una notte da leoni 3 avrebbe potuto essere il capitolo conclusivo di una trilogia in calo, con la progressiva flessione degli entusiasmi e l’esaurimento delle idee mai più dirompenti quanto quelle dell’esordio. Invece il regista e co-sceneggiatore Todd Phillips ha dimostrato intelligenza e scaltrezza nel cambiare rotta e chiudere in bellezza.
Il primo film resta insuperato, un’opinione facilmente condivisibile. È l’albero dal quale i due sequel hanno attinto, cogliendo i frutti migliori. È Una notte da leoni 3, però, che ha saputo trovare i più maturi. Accantonando “la sbornia”, che è il titolo originale The Hangover, il film usa ancora una volta sadisticamente Doug (Justin Bartha) come agnello sacrificale facendolo rapire da Marshall (John Goodman). Quest’ultimo è un criminale che ha un conto in sospeso con Leslie Chow (Ken Jeong) e solo Phil, Stu e Alan (sempre loro, Bradley Cooper, Ed Helms e Zach Galifianakis) possono riuscire nell’impresa di trovarlo e consegnarglielo per salvare la vita a Doug. I riferimenti alle storie precedenti sono continui e non permettono di godersi il film senza conoscere gli antefatti (posto che esista qualche masochista capace di vedersi il numero tre per primo).
Il “branco” impelagato una diversa dis/avventura è salutare per il film e per il pubblico. Da Los Angeles l’azione si sposta in Messico per tornare successivamente dove tutto è iniziato, a Las Vegas. Galifianakis è una mina vagante di comicità le cui derive farsesche sono ottimamente contenute e insieme assecondate dai suoi compari. Jeong è ugualmente inarrestabile con un’eccentricità leggermente forzata, ma la storia è equilibrata sia nella distribuzione del peso dei personaggi sia nello sviluppo, imprevedibile ed esilarante.
- Giornalista cinematografico
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