Un piedipiatti a Beverly Hills: Axel F, la recensione del film in streaming su Netflix

03 luglio 2024
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Eddie Murphy torna a vestire i panni poliziotto di Detroit che l'hanno reso celebre in tutto il mondo in questo film diretto dall'esordiente Mark Molloy. Ecco la recensione di Un piedipiatti a Beverly Hills: Axel F di Federico Gironi.

Un piedipiatti a Beverly Hills: Axel F, la recensione del film in streaming su Netflix

C’era una volta Axel Foley e la serie di Beverly Hills Cop, che ha lanciato Eddie Murphy nell’olimpo delle star globali.
Un primo film fulminante, un seguito tutto sommato all’altezza, un terzo capitolo decisamente zoppicante. E ora, a trent’anni di distanza Axel Foley (anzi, Axel F) torna sullo schermo: non quello grande del cinema, ma quello piccolo dei computer, dei device, delle televisioni di casa a pollici variabili.
E per citare la canzone che è un po’ un inno della serie, the heat was on.
Già, perché dopo un incipit a Detroit tutto sommato divertente e dinamico, con Murphy che trova il modo di scherzare sul politicamente corretto e poi distrugge svariate auto a bordo di uno spazzaneve mentre insegue un gruppo di rapinatori, questo quarto film che lo vede interpretare il celebre personaggio inizia a mostrare una stanchezza un po’ preoccupante.

Sono passati trent’anni e scopriamo che Axel a Beverly Hills ha una figlia, una figlia che fa l’avvocato e difende i criminali (e forse Freud c’entra qualcosa), una figlia con cui Axel non parla da anni. Ma poi il vecchio amico Billy, diventato un PI, lo chiama, e gli dice che la ragazza può essere in pericolo perché si è messa in testa di difendere uno accusato di aver ucciso un poliziotto nel corso di un traffico di droga, e perché la situazione è intricata.
E allora Axel torna lì, dove ha tanti amici (si fa per dire) e quel caso intricato, che diventa ancor più tale perché Billy sembra svanito nel nulla, finirà ovviamente col risolverlo a modo suo. E assieme a una figlia che finirà per accettarlo di nuovo come padre e a una seconda nuova entrata, un poliziotto locale interpretato da un Joseph Gordon-Levitt che somiglia in maniera impressionante a Vinicio Marchioni.

A garantire il sapore dell’action anni Ottanta ci sono i trafficanti di cocaina, un bel po’ di morti ammazzati, scontri in auto con le lamiere che fanno scintille e persino Kevin Bacon (qui in versione villain, come nell'imminente MaXXXIne). Non mancano le oramai scontate battute sull’età dei protagonisti che avanza (specie quella di Taggart), e di come i tempi siano cambiati: anche banalmente in una Beverly Hills sempre più di plastica.
E però, magari non di plastica, ma in questo Un piedipiatti a Beverly Hills - Axel F il personaggio di Murphy e gli altri revenant della trilogia sembrano un po’ le figurine bidimensionali, i simulacri di quel che un tempo sono stati.
L’Axel di Murphy è più o meno sempre uguale a sé stesso, con qualche chilo in più, ma la battuta è meno pronta, la convinzione con cui si muove sulla scena meno assoluta. Judge Reinhold è quasi irriconoscibile in volto, la chirurgia ha lasciato il suo segno), mentre su John Ashton si vedono tutti ma proprio tutti i segni del tempo. La questione però non è estetica, quanto contenutistica. Quelli, semmai, sono i segnali esteriori di una qualche forma di modificazione interiore.

Il punto è che in Un piedipiatti a Beverly Hills - Axel F tutto tradisce il suo essere un film nato a tavolino, sul tavolino di Jerry Bruckheimer: dalla trama ennesima variazione sul tema dello stesso canovaccio alla scarsa convinzione di molti dei suoi interpreti, passando per il giochino molto meta- sullo scorrere del tempo. Passato di regista in regista e di sceneggiatore in sceneggiatore in anni di sviluppo, il film è finito nelle mani dell’esordiente Mark Molloy, che non ha mostrato di avere un gran polso né le idee chiarissime per cercare di tirare fuori il meglio da un copione non esaltante (firmato da Will Beall, Tom Gormican e Kevin Etten).
Il punto è che Un piedipiatti a Beverly Hills - Axel F non ha granché da dire sul passato, sul presente, sul tempo che è passato e nemmeno in fondo su sé stesso. E si limita a suonare le stesse quattro note: come quelle dell’inconfondibile tema musicale di Harold Faltermeyer, che risuonano un po’ sommesse, e senza la squillante energia di un tempo, tra una scena e l’altra del film.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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