Un giorno devi andare - la recensione del film di Giorgio Diritti
25 marzo 2013
In Amazzonia per ritrovare il senso della vita
Giorgio Diritti è uno dei registi più dotati del cinema italiano, che ha dimostrato con soli tre film di essere in possesso di una cifra stilistica unica. E' un autore a tutto tondo, capace di narrare per immagini storie che vanno dritto al cuore delle cose e riportano l'attenzione là dove altri non hanno più il coraggio di andare: sotto la superficie, nel profondo dei desideri e delle emozioni umane. In questo senso Un giorno devi andare, suo terzo lungometraggio, non fa eccezione.
Lo spunto di partenza è il viaggio di una
giovane donna, Augusta, in Amazzonia, alla
ricerca di una guarigione dal dolore di non poter avere figli. Prima accompagna in
barca una suora amica della madre nel suo cammino di evangelizzazione, poi si
integra con gli indios di una favela su palafitte a Manaus, dove sembra trovare pace
in mezzo a gente che “ti sorride anche se non deve venderti niente”. Infine, quando
anche questo luogo viene contaminato da forze esterne, parte in canoa lungo il
fiume, cercando le risposte alle proprie domande nel contatto con una natura
grandiosa e indifferente.
E' una storia piena di
echi e suggestioni quella narrata da Diritti in questo film, che è,
anche produttivamente, una sfida alle ristrettezze mentali del cinema italiano.
L'autore non ha paura di puntare in alto e indica, con la sensibilità che lo
contraddistingue, la necessità avvertita da molti di un percorso di ricerca spirituale
(laico), necessario per uscire dall'impasse di un consumismo che,
inondandoci di
superfluo, ci ha trasformato in isole infelici, incapaci di entrare in reale contatto con gli
altri e di condividerci sogni, sentimenti e tempo, in un'esperienza comunitaria capace
di arricchire ogni partecipante.
Un giorno devi andare (splendido titolo esortativo), non è
compiuto come i due
precedenti film del regista: proprio nella parte finale, con l'arrivo della ragazza della
favela in casa di Augusta, la storia si sfilaccia e procede un po' meccanicamente fino
al finale aperto. Ma il film tocca vette altissime quando Diritti
mette la sua macchina
da presa in posizione di ascolto e fa parlare i luoghi e la gente, lasciandoli interagire
con sguardo quasi documentaristico e senza sovrapporvi una narrativa che di fronte
alla forza delle immagini e dei suoni appare quasi superflua.
Jasmine Trinca
dipinge efficacemente un personaggio dolente, chiuso e spigoloso,
che lascia trasparire un'immensa tenerezza e un animo infantile. E sarà difficile
dimenticare, anche molto tempo dopo aver visto il film, l'aliena bellezza di questo
angolo sperduto di mondo, che l'autore ama e non sfida con l'arroganza di un
Fitzcarraldo. Perché il suo sguardo, qui come altrove, è sempre puntato sull'uomo,
che nella sua sconfinata miseria non ha niente di sicuro se non il lento e
infinito fluire
del fiume.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
Suggerisci una correzione per la recensione