Tyler Rake: la recensione dell'action movie Netflix con Chris Hemsworth
L'esordiente Sam Hargrave catapulta l'immaginario action degli anni Ottanta nell'ipercinetismo visuale contemporaneo. Il risultato è quello di un film d'azione ruvido e godibile. In streaming su Netflix a partire dal 24 aprile.
All' apparenza, Tyler Rake è il più tipico degli uomini che non devono chiedere mai di una volta. Fa il mercenario, vive in una capanna scassata nell’Outback australiano, circondato da un cane femmina con cui è molto affettuoso e galline che li camminano per la casa: “Mi piacciono le galline, anche se cacano dappertutto”, dice Tyler.
Tyler guida un gigantesco fuoristrada, è muscoloso, tatuato, pieno di cicatrici, e quando va a fare campeggio con gli amici non ci pensa nemmeno un secondo a tuffarsi da una rupe alta trenta metri, appena svegliato, con la nonchalance con cui noialtri appena svegli sbattiamo il mignolino contro la zampa di una sedia.
Quando poi entra in azione, Tyler - che poi sarebbe Chris Hemsworth, il Brad Pitt australiano, nonché il Thor del MarvelVerse - è una combinazione letale del Rambo di Stallone, del Commando di Schwarzenegger e del Jason Bourne di Matt Damon. Un uomo-arsenale come non se ve vedevamo da tempo.
E però anche Tyler ha i suoi fantasmi: e lo capiamo subito dopo che si è gettato nel lago da trenta metri d’altezza, quando rimane un po’ sul fondo a ricordare, e quando la sua capa Golshifteh Farahani - arrivata nel capanno con le galline per proporgli un nuovo lavoro - guarda preoccupata le bottiglie di whiskey e le confezioni di ossicodone seminate nel disordine della casa e gli intima: “Se non sarai sobrio, non venire.” Che poi si capisce che lei è un po’ innamorata di lui (come potrebbe non esserlo) e che lui, come il Martin Riggs di Arma Letale, è un killer intrepido e spericolato, ma per nemmeno troppo latenti tendenze suicide.
Fatto sta che Tyler comunque entrerà in azione, sobrio, e metterà Dacca a soqquadro per liberare il figlio rapito del più grande boss della droga dell’India rapito dal più grande boss della droga del Bangladesh, che nella capitale se la comanda come fosse il capo dello stato, ma senza il vincolo di dover operare nella legalità.
Sam Hargrave, il regista esordiente di Tyler Rake, è uno che ha alle spalle anni di lavoro come stuntman e come stunt coordinator, e si vede. Si vede dall’agilità e la sicurezza con cui affronta le scene d’azione, che sono ovviamente tantissime e lunghissime, e con qualche piccola goffaggine, comunque mai eccessiva o plateale che invece emerge nelle scene parlate, o di raccordo.
Il suo è il tentativo, riuscito, di riprendere in mano la grandi tradizione del cinema d’azione americano della seconda metà degli anni Ottanta, e di declinarlo attraverso l’ipercinetismo spettacolare del cinema contemporaneo senza mai fare sconti al sangue e alla violenza che una storia di questo genere esige: la mezz’ora di film che vede Tyler trovare e liberare il ragazzino rapito, e fuggire con lui dal luogo dove era tenuto prigioniero, e poi in auto, e poi ancora all’interno di un palazzo tutto scale, porte, corridoi e panni stesi, è piuttosto impressionante, con momenti che sembrano voler battere anche le strade aperte in The Raid da Gareth Evans e con un bodycount che a naso potrebbe essere superiore a quello di un John Wick qualsiasi.
Alla gran capacità di Hargrave di girare l’azione, si associa poi il copione di Joe Russo, che non brillerà per originalità o per raffinatezza dei dialoghi, o per sottigliezze psicologiche, ma è comunque capace di utilizzare sensatamente il grande tema del film, legato ovviamente ai fantasmi del suo protagonista. Perché in fondo, se vogliamo, Tyler Rake è il film in cui un uomo che ha perso un figlio cerca di salvare - anche quando la situazione e i suoi capi gli direbbero di abbandonarlo per salvare sé stesso - un figlio che un padre, in qualche modo, non l’ha mai avuto davvero. E se in mezzo ci mettiamo anche un altro personaggio, che non rivelo, ma che comunque agisce anche lui per motivi dettati dall’amore paterno, ecco che un cerchio si chiude.
Allora, pur rimanendo certo lontano da declinazioni come quelle di certo romanticismo manniano, nella sua seconda parte, e soprattutto in quella finale, Tyler Rake sembra anche andare a cercare un po’ di quell’epica romantico-balistica che contraddistingueva l’heroic bloodshed del John Woo di fine anni Ottanta.
A conferma della solidità di Tyler Rake come prodotto d’azione, Hargrave e Russo hanno anche il coraggio di chiudere in maniera insolita per un prodotto di questo genere, sebbene la doppia coda del finalissimo sia formata da una scena brusca ed elegante che non contraddice nulla (e anzi riafferma la ruvidità del film), ma anche da una che, se riallaccia corerentemente un po’ di nodi, sembra vagheggiare un ripensamento non necessario.
O forse è solo un sogno, un nuovo fantasma, e non l’apertura, altrettanto non necessaria verso un sequel.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival