Tutti gli uomini di Victoria: recensione della commedia francese con Virginie Efira
Opera seconda della regista Justine Triet
Il cinema francese non lesina storie con protagoniste donne non più ragazze. È una delle ricchezze di quella cinematografia, supportata da interpreti di ogni età in grado di rappresentarle in maniera convincente. Non solo le solite note, ma anche ottime attrici come Virginie Efira, belga nata in televisione, fra le più convincenti interpreti di commedie, spesso meno convincente di lei. Recentemente ha avuto un piccolo ruolo in Elle di Paul Verhoeven, ma lo sfaccettato ritratto di quarantenne in Tutti gli uomini di Victoria ha segnato un passo in avanti, almeno in patria, per il suo riconoscimento come interprete di livello, al di là del genere.
Si tratta dell’opera seconda di Justine Triet, autrice della nouvelle vague di trentenni che si stanno affacciando in questi anni, dopo l’ottimo La battaglia di Solferino, passato da noi al Torino Film Festival, ma purtroppo non in sala.
Anche in questo caso la protagonista è una donna separata, alle prese con la sfida quotidiana di conciliare figli e lavoro. Victoria è un’avvocatessa penalista quarantenne la cui quotidianità già complicata, con un lavoro non proprio redditizio, e due figlie piccole da lasciare troppo spesso a babysitter di riporto, entra in ebollizione dopo la decisione di difendere un suo grande amico dall’accusa di aver accoltellato la fidanzata. Lo aiuta nelle faccende domestiche e famigliari, almeno quello, una sorta di stagista casalingo, un piccolo spacciatore da lei fatto assolvere, che sembra avere una venerazione per lei e interesse a imparare il suo lavoro. A proposito di talenti, sornione ma molto divertente è l’iper emergente Vincent Lacoste (tre nomination ai César a 24 anni) nei panni di questo improbabile ragazzo au pair, in realtà sedotto dal fascino più maturo di Victoria.
La Triet mette in scena una commedia elegante, piena di ironia sottile e contraddizioni in cui l’umorismo rende tollerabili mezze tragedie, totalmente dipendente da Virginie Efira, grande talento comico in grado di dosare i ritmi e i tempi della risata con naturalezza. La giovane regista cura con particolare attenzione le scenografie dei suoi interni: l’appartamento di Victoria, a un piano alto di una delle poche alte torri parigine, con il respiro delle finestre del salone, luminose verso l’orizzonte, reso inutile dall’abitudine della padrona di casa di rinchiudersi nella scura camera da letto con i suoi goffi amanti, o meglio per avere un po’ di serenità; e l’aula processuale, dalle proporzioni da futurismo anni ’50, con le pareti rosso vivo.
Una commedia romantica, troppo cinica e nevrotica per esserlo fino in fondo, su una donna contemporanea che ricorda quelle sofisticate di Hawks o Blake Edwards, con l’arrivo sul banco dei testimoni perfino di un cane, perplesso quanto la giudice, ma meno di un gorilla che si affaccia anche lui in questa storia di solitudine nascosta da una pesante dose di ironia, sigarette e alcol e sesso, molto più parlato che fatto. Altro elemento molto contemporaneo.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito