Tommaso: la recensione del film di Kim Rossi Stuart
Un film personale e coraggioso che sceglie l'ironia e la recitazione non naturalistica.
A un certo punto, avrebbe dovuto intitolarsi L’intelligenza del maschio il nuovo film di Kim Rossi Stuart, artista gentile che riprende per mano, facendolo crescere, il bambino del suo primo film e si mette a nudo, convinto che il gesto più coraggioso, per ogni uomo, sia aprirsi, raccontarsi, mettersi in discussione.
Così, dopo dieci anni di scelte di vita importanti e personaggi abitati con autenticità e devozione, eccolo alle prese con un’opera che lui stesso ama chiamare "il mio film testamento", una storia introspettiva che fruga dentro le conseguenze su un esponente del "sesso forte" di un'infanzia difficile e si risolve in una cronaca di una partita giocata sempre in modo uguale, di una coazione a ripetere, insomma. Ripetere cosa? Gli stessi macroscopici errori.
Il campo di gioco sono le relazioni sentimentali, o meglio l’avvicinamento al femminile, contemplato inizialmente con meraviglia e desiderio, e abbracciato chiedendo quasi nevroticamente affetto e attenzione, analizzato quindi al microscopio per individuare difetti e storture e infine respinto, senza pietà, balbettando giustificazioni e cercando un atro inconsapevole simulacro materno su cui in ultima analisi infierire. E' dunque l’imprinting familiare ciò che interessa al Vallanzasca di Michele Placido, insieme all’impossibilità - salvo immediato ricorso allo psicanalista o improvviso evento traumatico capace di smuovere le montagne - di trafiggere con il dardo dell’autostima un’insicurezza invincibile come un supereroe.
E tuttavia Tommaso è molto di più dell’esplorazione di una certa tipologia di maschio - e qui torniamo al titolo provvisorio - perché, passando all'intelligenza (sempre del titolo), a possederne in notevole quantità è proprio Kim, e prova ne è il modo in cui questo regista che ammette di essere control-freak e che perciò fa ripetere al suo personaggio: "Spegni il cervello, spegni il cervello", gestisce una materia che in altre mani sarebbe diventata banale, "alberoniana", magari da film generazionale. Aiutato certo da alcune cose in comune con Tommaso in cui agevolmente si cala, Rossi Stuart si permette di ridere di se stesso e del suo personaggio, di farne una creatura anche buffa, e di renderlo quasi ostico con una recitazione più sopra le righe che naturalistica. L’effetto all’inizio è quasi disturbante, poi ci si crede, perchè la teatralità è attitudine che accomuna un discreto numero di individui.
Nei panni di un bel ragazzo con la barba assediato da sogni erotici come un Walter Mitty però più cervellotico, Kim Rossi Stuart gioca a fare l'istrione, si comporta da attore pignolo, confessa manie che altri avrebbero taciuto e grida, grida spesso, magari un po' troppo, ma quando i suoi occhi si riempiono di lacrime, qualsiasi sospetto di narcisismo artistico sfuma, perché è di una debolezza disarmante che qui si parla e del bambino che eravamo e di cui, volenti o nolenti, non ci libereremo mai.
Dobbiamo ammettere di aver amato di più Anche libero va bene, ma Tommaso, in un certo senso, è un'opera più coraggiosa, libera, certamente non perfetta, ma che non trasmette mai un senso di estraneità, neppure se si è donne che di Tommasi (per fortuna) non ne hanno mai incontrati.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali