The Reach: la recensione del film con Michael Douglas che porta la lotta di classe nel deserto

13 luglio 2015
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L'1% e il restante 99 si sfidano sotto il sole cocente del Nevada.

The Reach: la recensione del film con Michael Douglas che porta la lotta di classe nel deserto

Con quel nome, Madec, che colleghi subito per assonanza a Madoff. Con il suo enorme fuoristrada custom Mercedes da 6 ruote e 500mila dollari. Con il fucile austriaco ad alta tecnologia, il telefono satellitare e quel look e quei modi che shakerano il Gordon Gekko del 2010 e l'Oren Little di Mai così vicini.
Lo capisci subito, insomma, che il personaggio di Michael Douglas in The Reach è l'incarnazione simbolica dell'1%, che sfrutta, incastra e tenta di corrompere (nel migliore dei casi) o annientare (nel peggiore) il restante 99, che qui ha il volto ingenuo e il corpo glabro e magrolino di Jeremy Irvine.

Date queste premesse, non sorprende che sia stato proprio adesso che il romanzo di Robb White “Deathwatch”, datato 1972, abbia trovato uno sbocco sul grande schermo. Nelle mani del regista francese Jean-Baptiste Léonetti e dello sceneggiatore americano Stephen Susco, The Reach diventa un racconto stilizzato e metaforico sulla lotta di classe, nel quale Wall Street incontra 127 ore ed entrambi incontrano, con maggiore o minore consapevolezza, i cartoni animati di Road Runner & Wile E. Coyote.

Nel sottotitolo italiano del film, “Caccia all'uomo”, sono rinchiusi tutti i 91 minuti di narrazione, con la strana coppia che parte per una battuta di caccia che non dovrebbe tenersi, con l'incidente che scatena il conflitto e il miliardario che inizia a braccare la giovane guida, costringendolo alla fuga sotto il sole del deserto per farlo fuori senza sporcarsi (troppo) le mani.
In quel deserto, nel deserto del Nevada, in quel luogo che si fotografa da solo (poi dice perché il cinema è americano, altro che Hollywood), prende allora corpo una lotta che non è antropologica ma di classe, o forse profondamente ancestrale proprio perché legata ai rapporti di dominio basati sul capitale. Gli esiti di questa lotta sono piuttosto scontati, considerata la natura di un film come The Reach, con un finale che ristabilisce gli equilibri e trova nella sfera privata e sentimentale la risoluzione del conflitto pubblico ed economico.

Ma nel film di Léonetti, che riprende il tutto con occhio piatto come l'orizzonte e senza guizzi, conta il cammino, non il punto di arrivo: contano le acrobazie e le peripezie del giovane Irvine, le vesciche sui piedi e la terra nella gola, i suoi salti e i suoi bruschi atterraggi, le esplosioni e i sassi che volano. Conta, più di ogni cosa, l'ironia di Douglas, appollaiato su una sedia reclinabile da campeggio a sei cifre, che si prepara e gusta un Martini ghiacciato sotto il sole del deserto, a due passi dal suo superaccessiorato fuoristrada, nemmeno fosse un Lapo Elkann qualsiasi.


 



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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