The Prodigy - il figlio del male: recensione dell'horror con Taylor Schilling
Un figlio che cresce come minaccia domestica nella vita di una coppia come tante.
Nell’horror, le coppie che attendono un figlio da molto tempo, per poi riuscirci con improvvisa gioia e un futuro all’insegna dell’amore familiare, non sono mai un buon segno. Semmai aprono la strada per un sotto genere particolarmente inquietante, e contro natura, quello dei figli che crescendo sembrano allontanarsi sempre più dai geni di chi li ha generati, ma posseduti da qualche forza maligna, se non direttamente dal diavolo stesso. Per questo motivo, non vi stupite troppo del sottotitolo di The Prodigy - Il figlio del male, terzo film, primo con un budget sostanzioso, di Nicholas McCarthy, uno dei nomi emergenti dell’horror indie che poco costa e molto incassa. The Pact e At the Devil’s Door i precedenti all’insegna della creatività artigianale, con pochi soldi e buone idee.
The prodigy inizia come ci si immaginerebbe: con l’idillio suburbano di una coppia di bellissimi giovani che finalmente aspettano la nascita del primo e tanto atteso figlio. Dovrebbe dare qualche sospetto che nei primi anni di vita, e minuti di film, vediamo il piccolo alle prese con una voglia di giocare a nascondino, sempreverde della paura per grandi e piccini, e alle prese con il trucco e la zucca da intagliare per Halloween, giorno dei morti in cerca di dolcetti. Qui il piccolo Miles più che dolcetti sembra preferire le notti in cui dare sfogo alla maestria in qualche oscuro dialetto o le giornate a scuola in cui infierire con inusitata violenza contro i suoi compagni. Improvvisamente l’angioletto biondo, tenero e dagli occhi chiari, uno diverso dall’altro, quando compie otto anni sembra ospitare una presenza minacciosa e poco socialmente frequentabile.
Non sembra così complesso capire chi possa essere, questa presenza, per chi non ha guardato altrove durante i primi minuti del prologo. Del resto, non è la sorpresa nei singoli passaggi narrativi che coinvolgono i protagonisti, la scommessa che gioca McCarthy. È invece la sua capacità di costruire le singole scene creando la giusta tensione, spesso scegliendo dal mucchio dinamiche tipiche del genere: dalla discesa nel seminterrato rigorosamente senza accendere la luce, e gettandosi contro la minaccia nascosta dal buio, alla registrazione dei borbottii notturni del pargolo, che dormendo dimostra di conoscere lingue morte o quasi. Quest’ultimo è solo uno dei tanti omaggi/riferimenti al classico assoluto sulla possessione demoniaca e il problematico rapporto madre e figlio: L’esorcista di William Friedkin.
Se il piccolo Miles è Jackson Robert Scott, preso di peso dall’allegra brigata di ragazzini dell’IT versione Muschietti, la bionda madre è la Taylor Schilling di Orange is the news black.
The Prodigy rischia di scivolare un po’ anonimo come la sua ambientazione, con qualche momento ben giocato e inquietante che si fa spazio in una storia piatta come le strade del Midwest. Traspare un amore sincero per il genere da parte del suo autore, così come le infinite ore trascorse a vedere grandi classici o dimenticabili epigoni che sembrano venire da un paese molto vicino a quello del film, appena più in là, tanto che sembra di riconoscerlo.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito