The Neon Demon: recensione del film di Nicolas Winding Refn in concorso al Festival di Cannes 2016

20 maggio 2016
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Spiazza e lascia perplessi, il nuovo ambiziosissimo film del regista danese.

The Neon Demon: recensione del film di Nicolas Winding Refn in concorso al Festival di Cannes 2016

L'unica è pensare che sia tutto un grande bluff. L'unica è convincersi che, sotto i proclami per i quali The Neon Demon è un film sulla bellezza (in assoluto e nella società di oggi), sotto la letteralità di una trama che racconta con tempi dilatatissimi della furia invidiosa e cannibalica con la quale si combatte la guerra della bellezza, Nicolas Winding Refn abbia mirato a qualcosa di altro.
La bellezza è tutto, la bellezza è la cosa più importante, si ripete del film, e l'unico personaggio che osa esprimere una forma di dissenso – sostenedo che, suvvia, è quello che una persona ha dentro che conta – viene prontamente bannato dalla vita della protagonista Jesse (Elle Fanning) e dal film del regista danese. Che allora Refn abbia voluto mettere in scena il vuoto pneumatico della società dell'immagine e della bellezza a tutti i costi? Certo è che che su queste cose c'è gente che ha scritto libri e fatto film già una trentina di anni fa.

The Neon Demon è un involucro vuoto. Lucido, patinatissimo, a tratti anche affascinante ma vuotissimo, sotto l'inquadratura e dentro l'inquadratura. Il feticista Refn porta all'estremo la sua ansia e la sua bramosia di feticizzazione del mondo, stilizzando come non mai, rendendo il tutto gelido, e costellando le scene di momenti di silenzio, d'immobilità.
Spesso sono azzerati i rumori di fondo, le parole (poche) risuonano nel nulla, i passi echeggiano o non si sentono nemmeno quelli, mentre la macchina da presa si fissa su un volto, un oggetto o un panorama, quasi fotograficamente, o slitta lentissimamente verso qualcosa di altro.
A riempire, parzialmente, effimeramente, le note elettroniche di Cliff Martinez, e gli immacabili neon, le luci sparatissime dei set fotografici, i deliri onirici di Refn, a cavallo tra Mulholland Drive, American Psycho, Brian De Palma e le pagine di Vogue.

E però le pagine di The Neon Demon le sfogli, guardi dietro, e sotto, e non ci trovi nulla. Nulla a parte metafore esplicitissime, e una serie di prese per i fondelli, anche piuttosto ovvie e bonarie, del mondo della moda, dei fotografi e delle modelle, e una manciatina di scene davvero molto potenti dal punto di vista estetico. E che Refn abbia voluto raccontare il ridicolo, il vuoto e la superficialità con un un film vuoto, di pura superficie, e a tratti un po' ridicolo, è una provocazione alla quale si fa fatica a credere.
Il danese, che oramai parla come un guru (cose tipo: “Non sono un genio, il pubblico è un genio, io sono solo il facilitatore”), non trova né la potenza né la sostanza dei suoi lavori precedenti, spingendo la sua ricerca troppo oltre, credendo troppo in una ricerca intellettuale e cinematografica che, pare, lo sta facendo un po' smarrire.

Lui, comunque, non pare curarsene. A lui sta a cuore, in questo caso, il racconto favolistico ultrapop e la messa in scena della bellezza (non a caso, l'ultimo e unico volto della fine del film è quello di Abbey Lee, la più bella del lotto). A lui rimangono le immagini e i corpi come momento di collasso dello sguardo e del pensiero, autosufficienti e perfino de-erotizzati.
A noi rimangono il dispiacere, e l'amaro in bocca.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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