The Happy Prince: recensione dell'opera prima di Rupert Everett sugli ultimi anni di Oscar Wilde visto alla Berlinale 2018

17 febbraio 2018
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Un progetto a cui il britannico ha dedicato molti anni.

The Happy Prince: recensione dell'opera prima di Rupert Everett sugli ultimi anni di Oscar Wilde visto alla Berlinale 2018

Non è certo da pochi anni che Rupert Everett si identifica fino all’ossessione con Oscar Wilde, interpretato con successo qualche anno fa nei teatri del West End londinesi in The Judas Kiss di David Hare. Dopo anni di tentativi riesce ora a esordire alla regia in un film, The Happy Prince, da lui scritto diretto e interpretato, che racconta gli ultimi anni di vita del grande artista britannico. Anni cupi e frenetici, seguiti al carcere per sodomia e al crollo della sua popolarità, dopo essere stato per molti anni il Poeta britannico per eccellenza, il dandy adorato dalla nobiltà, ma anche capace di sedurre e farsi sedurre dalla povera gente. Dopo anni non facili, anche per qualche ritocco del chirurgo non calibrato a perfezione, Everett indossa i panni consunti di un uomo nel momento più oscuro della propria vita, abbandonato alla crocifissione da una massa pronta fino a poco prima a osannarlo. Un ritratto febbrile e claustrofobico, in cui non si esce da interni angusti ed esterni malsani e periferici, con salti indietro e in avanti che sanno di deliri da perdita della ragione.

L’intellettuale ‘contro’ da salotto si perde ora nelle strade periferiche di Parigi, dove si rifugia e trova qualche conforto grazie alla protezione dell'anonimato e al suo estro retorico e poetico che gli permette di conquistarsi le ultime simpatie. Sono pochi gli amici rimasti al suo fianco, l’adorato Bosie viene ritratto come un egoista cosmico, incapace di pensare ad altro che a se stesso e a sfruttare l’amore di Oscar Wilde, finito in galera per la sua omosessualità, ma soprattutto per la vendetta del padre di Bosie, Lord Douglas.

Intorno a lui, oltre ai rimpianti di una vita intera, specie quelli legati alla moglie Constance (Emily Watson), sono solo Robbie Ross, critico letterario che cercò “di salvarmi da me stesso”, o il giornalista e scrittore Reggie Turner, qui interpretato con baffi da Colin Firth. Il Wilde che emerge è più quello poetico e malinconico, rispetto a quello tutto arguzia e aforismi capace di capovolgere ogni banalità in un capolavoro di leggerezza e rottura degli schemi. L’unico che avrebbe potuto rendere Everett attore, probabilmente.

A latitare è una regia piuttosto confusa, incapace di tenere a bada i deliri del suo istrionico protagonista elaborando una personale chiave visiva, e soprattutto narrativa. Il ritmo è claudicante e solo a tratti riesce ad emergere l’energia vitale residuo di un uomo capace di vivere una vita all’insegna dell’amore, verso se stesso e gli altri, sempre pronto ad assumersi le responsabilità dei suoi fallimenti. Coprodotto dall’italiana Palomar, The Harry Prince si avvale del contributo di alcune nostre maestranze di alto livello, come Maurizio Millenotti e Gianni Casalnuovo ai costumi, Lugi Rocchetti e Francesco Pegoretti a trucco e parrucco.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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