Le Deuxième Acte: la recensione del film d'apertura di Cannes 2024 con Léa Seydoux e Louis Garrel
Il dissacrante Quentin Dupieux torna a raccontare i confini fra recitazione e reale ponendo l'attenzione su un gruppo di attori di cinema alle prese con delle riprese molto particolari. La recensione di Mauro Donzelli di Le deuxième acte film d'apertura del Festival di Cannes 2024.
“Attento verrai cancellato, non puoi dirlo”. Non si può dire “nano africano”, per definire un attore televisivo. Ma sono due persone che camminano, o due attori che stanno recitando, impegnati in un lungo piano sequenza iniziale? Un distinzione fra vero e verosimile che Quentin Dupieux cavalca per permettersi un nuovo capitolo della sua dissacrante carriera, infarcita di commedie spiazzanti, piene di energia, declinazioni cinematografiche della sua paura della noia. Anche se in Le Deuxième Acte, proseguendo un percorso iniziato con Yannick, uno dei tre film girati in un anno, controlla maggiormente la narrazione, meno ossessionato dall’esplosione di punti di vista che mettono in luce un paradosso iniziale, in cerca di deragliamenti a fase continua.
Dupieux crea un dittico nobile sullo spazio fra realtà e messa in scena, sullo spazio delimitato d’azione di un attore: a teatro, chiuso e a contatto con le reazioni del pubblico, in un caso, e ora inseguendo quattro attori sul luogo di lavoro, un set isolato nella campagna. Evitando fughe dalla realtà attraverso l’umorismo - come nei film precedenti - disegnando personaggi in fondo non così paradossali, certo non caricaturali e complessivamente ancorati alla realtà. Dodici giorni di riprese, in moto veloce come ama il regista, con palese divertimento dei quattro ottimi attori protagonisti. Sono Léa Seydoux e il padre Vincent Lindon, che vanno a incontrare in un bar il fidanzato di lei, Louis Garrel, che si porta dietro l’amico Raphaël Quenard, perché a suo dire non è intenzionato a proseguire una relazione in cui lei lo ossessiona ai limiti della stalker, e chiede al sodale il sacrificio di sedurla.
Le Deuxième Acte è una partizione molto accurata e fedele a un testo che nobilita la parola. Proprio come in Yannick, utilizza il linguaggio per fare da agente di disturbo nei confronti di tematiche molto delicate dei nostri tempi. Non si risparmia, Dupieux, ironizzando su cancel culture e politicamente corretto, sulla declinazione del rapporto fra donne e uomini, ma anche sull’intelligenza artificiale. E poi, naturalmente, ma non soprattutto, quello che risulta più eclatante in superficie: la messa alla berlina delle angosce e le nevrosi degli attori, meglio se popolari. In questo senso, conferma la sua naturale empatia per chi si trova ai margini, regalando esilaranti momenti sulle ipocrisie di chi invece dipende dai riflettori.
Per farlo, Dupieux ci conduce in un piccolo bar sperduto nel nulla, apparentemente agli antipodi dal contesto in cui le vediamo splendere, queste creature. Stanno girando un film, sono al lavoro perse nella natura, in un continuo sfiorarsi e sovrapporsi di set e realtà, regalando un riflettore inconsulto, oltre che inconsueto, a una di quelle figure a margine (un magnifico Manuel Guillot, il più sorprendente di tutti), fra la comparsa e una posa e via, abituate a rimanere sullo sfondo, alle prese con la paura di finirci, in un’inquadratura bella a fuoco. È chiaro che Dupieux parteggia per chi serve a tavola il vino, ma trema bloccando la scena dei quattro protagonisti a tavola, finendo preso in giro da chi si gonfia di supponenza.
Racconta di una tribù a tempo limitato, che si frequenta e diventa tale solo fino all’ultimo ciak, presto pronta a dividersi di nuovo in caste. Ego e nevrosi sono però minacciate dagli algoritmi e da un futuro in cui l’intelligenza artificiale minaccia di sovvertire le regole, di applicare numeri freddi anche alla creazione artistica. Dupieux rivendica, a suo modo, prendendo in giro e non imponendo mai tirate da dietro una cattedra, la libertà del cinema di fregarsene “di quello che funziona”, delle regole e delle consuetudini, rompendo il confine fra realtà e finzione, fra l’atteso e l’imprevedibile.
Dissacrante ma malinconico, non si limita a godere del fatuo brivido della distruzione, ma osserva da vicino i meccanismi che portano al punto di rottura. In un universo che esiste nell'ambito limitato di un (grande) schermo, fra due attori che parlano camminando e un ribaltamento di campo che mostra i binari percorsi dalla macchina da presa chi li ha ripresi, questi attori. E quindi gli ha regalato la vita, con quell’energia, sempre più a fuoco e meno infantile, che rende Quentin Dupieux un Frankenstein sospeso fra i generi, pronto a pungolare quel cinema che definisce “un’arte un po’ stanca, che va risvegliata”.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito