Sur l'Adamant: recensione del documentario di Nicholas Philibert presentato alla Berlinale

24 febbraio 2023
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Una imbarcazione attraccata sulla Senna a Parigi diventa un microcosmo di pazienti psichiatrici in cerca di evasione. Il documentario di Nicolas Philibert Sur l'Adamant è stato presentato in concorso al Festival di Berlino. La recensione di Mauro Donzelli.

Sur l'Adamant: recensione del documentario di Nicholas Philibert presentato alla Berlinale

È irremovibile, niente può spostarlo. Fin dal nome, da come suona in italiano, è un punto di riferimento, questo centro diurno galleggiante. Sur l’Adamant è un documentario che racconta giorni di ordinaria quotidianità di una realtà ancorata alla riva della Senna, nel cuore moderno e centrale di Parigi, che accoglie pazienti con disturbi mentali, offrendo un luogo comune in cui muoversi, nello spazio e con il giusto tempo, per (ri)stabilire contatti umani con persone di ogni genere, con i malati e i volontari, psichiatri e personale curante. Il tutto in un contesto in cui isolarsi dalla disumanizzazione delle società contemporanee e guardarsi in faccia, dialogare, insieme ai parenti e a chi per lavoro o missione ideale costruisce con i pazienti una vita quotidiana giorno per giorno. Corsi, danza, festival di cinema, ogni forma di attività culturale, purché svolta insieme.

Nicolas Philibert è un esperto osservatore della quotidianità di gruppi sociali, lo ha fatto con eccellenti risultati con Essere e avere, diventato un classico sui bambini a scuola. Questa volta ha messo il suo sguardo mai giudicante, ma empatico e non sterilmente analitico, al servizio di un luogo sempre in movimento, in cui il concetto stesso di marginalità assume un contesto meno inflazionato e banale. Sono persone sorprendenti e dal passato sì spesso traumatico, ma anche molto interessante, quelle che conosciamo a bordo dell’Adamant. Una realtà sempre in movimento, in cui si legge la passione per il confronto, in cui ogni paziente riceve una soluzione personalizzata alla sua condizione, pur non rinnegando ma anzi ricercando continuamente la dinamica di gruppo, la condivisione.

La protagonista poi è senz’altro questa arca così particolare, che raccoglie specificità così diverse. Costruita in legno, in stretta collaborazione fra architetti, pazienti e medici, capace di aprirsi all’esterno con ampie finestre che si affacciano sul fiume, ma da cui è anche possibile scorgere la frenetica attività di un ponte e delle strade che costeggiano la Senna. Un luogo di pausa, prima di riprendere (si spera) il cammino, come accade alla popolazione che la frequenta. Con un obiettivo chiaro: evitare che la paura e in sintomi facciano rinchiudere in casa i pazienti. In quest’ottica si può andare anche solo per bere un caffè, fare un saluto o mettersi a leggere. 

Un viaggio appassionante, grazie soprattutto alla scelta di almeno un paio di protagonisti davvero capaci di catturare l’attenzione, per come dimostrano come l’eccentricità o la sofferenza mentale siano anche una risorsa, un modo per riconnettersi con il mondo e ricostruire i propri legami. Non una marginalità che diventa un peso da escludere, da nascondere.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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