Stringimi forte, la recensione: Amalric all'inseguimento dei fantasmi della vita, dell'amore e delle storie
Presentato al Festival di Cannes 2021, inspiegabilmente non in concorso, il nuovo film da regista di Mathieu Amalric debutta nei cinema italiani il 3 febbraio con Movies Inspired. La recensione di Federico Gironi.
È l’alba. Una donna si muove silenziosa nella grande casa dove abita con la famiglia, da qualche parte nella Francia sud-occidentale. Osserva marito e figli che dormono, si veste, prepara una borsa. Al loro risveglio, l’uomo e i bambini non la trovano lì. Non ci sono biglietti: solo una lista della spesa sul tavolo. La donna ha preso un’auto - una AMC Pacer Break del 1979 - ed è partita. Lo capiamo subito che non tornerà. Lo sa anche suo marito. Lo sanno, già, anche i suoi figli.
E però, Stringimi forte non è la storia di una fuga, nonostante tutto sembri indicarlo. Nonostante Mathieu Amalric, qui solo regista, voglia farlo credere.
E però in fondo, a ben vedere, sì, quella di Stringimi forte è la storia di una fuga eccome: anche se non di chi pensiamo all’inizio, anche se non da quel che vediamo all’inizio. E sì, la fuga è quella della protagonista, che si chiama Clarisse ed è interpretata benissimo, come al solito, da Vicky Krieps.
La sua è una fuga nella quale, in fondo, è facilissimo ritrovarsi: è la fuga da quel che non ci piace, da una realtà che non accettiamo. La fuga dal dolore.
Amalric racconta la fuga di Clarisse, e la mette in parallelo, a confronto, in relazione letteralmente dialogica con la quotidianità di Marc, di Lucie, di Paul. Della sua famiglia.
E qualcosa in quello che è messo sullo schermo, e in come è messo sullo schermo, e nel modo in cui il mondo di Clarisse e quello della sua famiglia si parlano, interagiscono, si sovrappongono, insinua il sospetto prima, la convinzione poi, che in questa storia le cose non siano quelle che sembrano. Che qualcosa non torni. Che quello che vediamo sia qualcosa di vicino a un sogno o a un incubo, e che le figure che si muovono nell’inquadratura abbiano una natura concreta e fantasmatica assieme.
Che poi è la natura del cinema, certo. Del cinema vero. Ma non solo.
Basta una quarantina di minuti di racconto e suggestioni, di ellissi e di astrazioni, a Stringimi forte, per potersi permettere di svelare al suo spettatore quel che il suo spettatore aveva già, perlomeno subliminalmente, intuito e interiorizzato. E allora può succedere che lo spettatore, a quel punto, si chieda come e perché Amalric possa spingere avanti la storia di Clarisse e della sua famiglia per un’altra ora.
Ma Stringimi forte non è un film di Shyamalan, il twist del trama non è risolutivo, ma immersivo. Una volta di fronte alla realtà dei fatti, se pure di realtà si può parlare, si affonda sempre di più nel mondo messo in scena da Amalric, nei sentimenti che racconta, nei dolori che evoca, negli intrecci che elabora mescolando gli spazi, i tempi, le dimensioni. Elevando la complessità e al tempo stesso l’evanescenza dei rispecchiamenti e dei legami. Ribadendo la necessità dell’esperienza, del vissuto, del futuro.
Clarisse viaggia nello spazio e nel tempo, arriva al mare, trova un bar al porto dove scolare dei calvados, raggiunge i Pirenei, fa una scoperta cruciale, fa colazione da sola, ordina due caffè e due cioccolate, osserva la sua famiglia da lontano, poi da vicino, quella famiglia casa che cresce, cambia, si confronta con la sua assenza, evolve. Come la casa che la ospita.
Lentamente, qualcosa in quel che vede la turba. Le scelte dei figli, del marito, non sono quel che si sarebbe aspettata. Il dialogo a distanza, con loro, non funziona più.
È il momento di fermarsi. Di tornare all’inizio. All’inizio di tutto. All’inizio del film.
È il momento di tornare a giocare con le polaroid di una vita assieme distese sul letto, di giocare con quelle foto al gioco della memoria, al gioco delle coppie. È il momento di ricominciare.
Ricominciare a immaginare, a raccontare una nuova storia. Forse un nuovo film. Ricominciare a fuggire: dal dolore, dalla mancanza, dalla morte che Amalric ha raccontato fino a quel momento condividendo con Clarisse la responsabilità di una trama e di una regia. Ricominciare a vivere.
È il momento per Amalric di chiudere: e lui chiude. Chiude un racconto che ha seguito assieme a noi, senza mai mettersi davanti, senza mai fare il demiurgo.
Senza sbavature. E così gli si perdona anche l’eccessiva insistenza del pianoforte, della musica, di un rispecchiamento di troppo e forse troppo sottolineato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival