Spy Game: la recensione del film di Tony Scott
Con Spy Game, nel 2001 il compianto regista Tony Scott realizza uno film di spionaggio con l'anima, interpretato con grande bravura da Robert Redford e Brad Pitt per la prima volta insieme.
Di Tony Scott, che abbiamo avuto il piacere di incontrare all'epoca di uno dei suoi film più belli, Una vita al massimo (scritto da Quentin Tarantino), ci hanno sempre colpito due cose: la sua grande simpatia umana e la sua impossibilità di essere banale e prevedibile come regista. In vita la sua bravura nel raccontare storie attraverso lo stile veloce e spettacolare dei suoi trascorsi in pubblicità è stata spesso sottovalutata: al più si scherzava sulla sua tendenza ad eccedere coi movimenti di macchina e lo si è sempre considerato il fratello meno dotato di Ridley Scott. Noi, al contrario, lo abbiamo sempre trovato un regista unico, efficiente ed efficace nel modo di raccontare e oggi ci manca moltissimo l'originalità della sua voce nell'affrontare un certo tipo di cinema. Perché c'è quasi sempre un equilibrio, nei suoi film, tra forma e contenuto, con un ampio margine di sperimentazione. Semmai sono le sceneggiature, spesso, a mostrare la corda e a impedirgli di esprimersi al meglio. Un esempio perfetto di quanto una regia accurata possa rendere gradevole e interessante un film che parte da una premessa non originale e con un esito prevedibile, è Spy Game, uscito con successo nel 2001, 3 anni dopo un altro hit del regista, Nemico pubblico. La storia è semplice e lineare anche per un profano di film di spionaggio, a cui tutto viene abbondantemente spiegato, e si riduce al rapporto quasi paterno tra un mentore e un allievo che si caccia nei guai all'insaputa di chi gli ha insegnato tutto.
Fin da subito capiamo che, contravvenendo a tutto quello che lui stesso ha insegnato al più giovane, l'agente della CIA Nathan Muir farà tutto il possibile per lui quando, il giorno prima del suo pensionamento, viene avvertito che il suo protetto Tom Bishop, da tempo allontanatosi dall'azione, è finito prigioniero in Cina - con cui l'America è in procinto di concludere un importante accordo commerciale - e verrà giustiziato la mattina del giorno dopo come spia. I vertici dell'agenzia sono concordi nel lasciare il giovane sleale al suo destino, ma Muir riesce in pochissimo tempo e dall'interno dello stesso edificio in cui operano i suoi capi a organizzare un piano formidabile, a dispetto del fatto che potrebbe costargli molto caro. Spy Game tiene fede al suo titolo, perché lo spionaggio nel film è il gioco dei grandi. È proprio Muir a insegnare a Bishop, dopo averlo reclutato, che in questo gioco bisogna imparare a essere i più bravi, dove la bugia ripetuta diventa verità e l'inganno una seconda pelle. Ma anche le spie possono provare sentimenti, e il gioco diventa ad un tratto impossibile da vincere.
L'abilità di Scott nel raccontare una storia più verbosa di quelle a cui è abituato (è Muir il narratore, a beneficio dei colleghi e del pubblico, del suo passato con Bishop) si rivela soprattutto nelle belle sequenze d'azione che ci portano dalla Cina del 2000 al Vietnam del 1975, per poi condurci nella Germania Est e nel Libano dilaniato dalla guerra. Ma non solo: passiamo altrettanto tempo, quasi senza accorgercene, all'interno dell'edificio della CIA, nei corridoi, negli uffici, per le scale, a colloquio con fedeli segretarie che capiscono tutto al volo, al telefono e attorno al tavolo delle riunioni su cui Muir gioca la partita di cui è maestro. Scott riesce a movimentare anche questi lunghi periodi in interni, grazie al carisma di Redford che tiene banco, certo, ma anche all'attenzione che la sua mdp presta a ogni particolare e personaggio (su tutti il nemico diretto di Muir, Harker, interpretato dall'attore londinese Stephane Dillane che ritroveremo molti anni dopo nel Trono di spade come Stannis Baratheon). Robert Redford e Brad Pitt, alla loro prima volta insieme, dimostrano un'ottima sintonia e una certa somiglianza: potrebbero essere davvero padre e figlio, con il più anziano che rivede nel giovane il se stesso idealista degli inizi e vuole tenerlo lontano dai pericoli, a costo di alienargli la donna che ha scelto ma di cui non si può fidare, perché in questo mondo crudele e nichilista nessuno è quel che dice.
Rivisto oggi, Spy Game regge alla patina del tempo e ci dice che la regia “esagerata” di Tony Scott era l'energica espressione di un uomo innamorato del suo lavoro, incapace di stare fermo o anche solo di camminare piano. Dietro la macchina da presa, Scott era un regista consapevole di avere tra le mani il giocattolo più grande e prezioso del mondo e voleva regalare al pubblico un po' del suo stesso divertimento, in due ore di evasione che non facessero rimpiangere il prezzo del biglietto. Il fatto che ci sia riuscito la maggior parte delle volte è il miglior tributo che si possa fare a questo brillante filmmaker che ha scelto un modo spettacolare anche per andarsene, con quel suo ultimo disperato stunt che vorremmo non fosse mai avvenuto.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità